Anno 1 | Numero 1 | Settembre 1997

“Alzati e comincia a volare salpa l’ancora e tuffati
a nuotare nei padiglioni perduti in prati infiniti
nitriti di stalloni sotto il lucido pelo come paracalli
nelle mani freme elettrica la tensione dilatano
narici mentre il sole è perso dentro olmi secolari.”

La poesia è un soffio, la letteratura un sospiro saporoso, e sempre fremono le parole messe in fila a germogliare, – mollemente distese su bianche rughe di carta. Bruciano, le parole, inventano e smantellano mondi. Coi loro sensi perduti che tornano da lontano e odori che si stemperano nell’aria. Viaggiano lungo sentieri impervi, scendono nei dirupi, saltano in cima alle stelle e, piano, evaporano. Raccontano di storie, di fantastici voli. Le parole si raccontano, e poi ci trascinano via. Accade esattamente questo, a volte. Succede in Blasone per Jury Chechi, “racconto-poesia” di Dario Voltolini ambientato in un luogo imprecisato dell’anima, si direbbe, ma anche l’estremo viaggio dell’uomo verso il vuoto insondato, dove la sua incapsulata umanità esplode.

Piccolo uomo dal grande destino, Jury Chechi, uomo cocciuto, e grande campione in autodisciplina e sacrificio. Bello, bellissimo, per tutti noi sportivi platonici, realizzare, grazie a Chechi, l’impensabile volo: c’è Icaro lassù, che danza insieme ai suoi anelli, “semplicemente al centro dell’aria”.

È forse vero che il senso della vita di un uomo può essere racchiuso nel nome che porta? Perché, se questo fosse pensabile, Jury Chechi – l’atleta campione del mondo gira alla velocità di un altro Jurij, quel russo che si mise in testa di esplorare il nulla sconfinato, da solo e per noi tutti: Jurij Gagarin.

Questa possibilità anima il racconto di Voltolini, e ne segna il passo. E allora il retrogusto che lo pervade è la straziante e struggente dicotomia tra terra e aria, tra ieri e domani. Dove l’oggi – “la tetra gravità” – è lasciato ai burocrati, e il futuro è il refrain della nostalgia impastata nelle cose, nelle strade, in amori consumati e immagini fioche. Le parole, poi, fanno il resto. Sono come fraseggi musicali, lo scrittore le distilla: inchiostro azzurro su carta-musica. E tra le pieghe di quella carta c’è Jury Chechi – Jurij Gagarin – “il marinaio”, Jury Chechi “l’aviatore”, il cappellaio matto, oh! celeste postino. Avviene, allora, che mentre il suo volo è una ferita secca, o il più segreto desiderio, le parole del racconto di Voltolini allineano un invisibile cerchio, e poi si annientano. Poetica che nasce dal poco, solamente una vita e due anelli. In orbita.

Inizia subito – senza inizio alcuno – il viaggio oltre i paraggi del dolore, si spinge alto sul nostro mare di pietra e di interminabili notti. Si lascia alle spalle la vita, umanità mutante, colori, tempeste e cieli tersi, paesaggi solari, allegorie. E mentre noi – che leggiamo – iniziamo a domandarci dov’è il territorio della nostra anima – quella stessa anima collettiva che respira l’inquietudine dell’esplorare, – già siamo irrimediabilmente persi nella territorialità dei luoghi, toccati in volo e subito annullati dall’evanescenza delle pure parole. Viviamo così magie infinite, brandelli d’assoluta normalità illuminati da un’aurea di trascendenza. Ci sono il sentire e vedere quotidiano che ci zavorrano al nostro piccolo mondo, da un lato, e il guizzo irriverente – e irridente – dell’atto creativo, che ci tenta ad andare – e a provare, – dall’altro. E gli opposti si combinano perfettamente, senza disarmonie, in un’alchimia ben riuscita. Sino al finale, che ritorna – inevitabile come un flusso della mente – al principio, alla volontà di foga dal reale e al volo liberatorio. Un desiderio che può diventare realtà, per alcuni, solo a costo di “un grande dolore”, solamente con la rinuncia a quella quotidianità che rassicura ma che limita.

Blasone per Jury Chechi è la prova commovente delle infinite possibilità della scrittura: fluenti automatismi s’incuneano in giochi scoperti di celamento e disvelamento del narrato e del narratore, acrobata infaticabile nei cunicoli della coscienza, tra ricordo e dimenticanza. Viaggiatore affatto solitario, Voltolini ci accompagna per mano, percorrendo tappa dopo tappa il cammino di redenzione dalla ripetitività grandiosa dei cicli naturali, fino alla più paradossale inerzia: lo sconfinamento della gravità. E la costante alternanza dei piani – tra lo sperimentato e l’onirico – dà la cifra allo straniamento e alla vertigine che ci prendono leggendo questo racconto, preghiera e unico, abbacinante verso, insieme.

Angela Acquaviva

“Se come so sei un marinaio che osserva l’arrivo del tifone, allora aggrappati stretto e forte all’elemento libero che liberamente voli.”

Il racconto Blasone per Jury Chechi è tratto dal libro di Dario Voltolini Forme d’onda, edito dalla Feltrinelli.

 

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