La raccolta di racconti Il Colombre non è un capolavoro, come Il Deserto dei Tartari, eppure mai come in essa Buzzati descrive ed interpreta magistralmente le paure, i dubbi e le angosce dell’uomo contemporaneo.

Lo fa con una prosa che si tiene nei canoni della normalità: non è aulica, non è onirica, non utilizza, nel continuo richiamo al mistero, al non percepibile, all’oltre, alcuna parola che, sia pure precisa e nitida, si discosti dalla lingua media che il lettore di giornale possa capire.

Lo fa nella forma del racconto breve, che più del romanzo permette a ciascun lettore di immedesimarsi almeno in un personaggio, e per questo aderisce perfettamente al contenuto della narrativa dell’Autore.

Questo interrogarsi, in tempi e modi diversi, spesso attraverso la forma del racconto morale, è il fil rouge della raccolta.

Lo straordinario, di questo insieme di racconti, è che se ne percepisce il provenire dal secolo scorso, ma parlano all’uomo del duemila come parlavano a quello del millenovecentosessanta.

Nel racconto “Cacciatori di vecchi”, un imprenditore di nemmeno cinquant’anni viene inseguito da un gruppo di giovani che cacciano e aggrediscono quelli che chiamano “vecchi”. Il racconto finisce con la morte dell’uomo e con il capobanda dei giovani che, magicamente invecchiato in una notte, è sottoposto allo stesso linciaggio. Rottamati e rottamatori, si direbbero oggi.

Nel racconto “Dolce notte”, una donna non dorme e chiede al marito di controllare il giardino perché ha come l’impressione che fuori, nel giardino, ci sia “qualcosa”. L’uomo si trova davanti lo splendore di una notte serena, ma Buzzati ci regala tre pagine quasi splatter sulla descrizione della lotta per la vita che si sussegue nel giardino. E ci spiega come “per l’intera superficie del mondo è lo stesso dovunque, appena scende la notte: sterminio, annientamento e carnaio”. E non ci lascia illusioni sul giorno, perché prosegue “E quando la notte dilegua e il sole compare, un’altra carneficina comincia, con altri assassini di strada, con uguale ferocia. Così è stato dal tempo dei tempi e così sarà per i secoli dei secoli, fino alla consumazione del mondo”.

Buzzati, letto sul far della sera e nella notte, in una Milano di metà giugno, quasi deserta per il caldo e il weekend, opprime e pesa sul cuore tanto da spingere a domandarsi cosa c’è oltre quella realtà così tragica, così disperatamente priva di speranza (il signor Merizzi della “Diciottesima buca” che gioca la partita migliore della sua vita a golf e si trasforma in rospo, e muore tra le mosche, prima di finirla), e dunque credo questo sia un libro che raggiunge l’obiettivo del suo autore.

Ma nel tempo di Wikipedia e della rete, viene voglia di capire se lui, l’autore, che è stato un cronista del mistero, e, come scrisse Indro Montanelli: “Se nell’aldilà c’è qualcosa, nessuno più di Dino Buzzati se l’è meritato, perché l’ha interrogato tutti i giorni della sua vita”, avesse alla fine trovato una sua risposta, un modo per riempire l’oltre di qualcosa che non assomigliasse al vuoto eterno, all’eterno rincorrersi del tempo su una ruota.

E mi piace ci sia, in una poesia, che non fa parte di questo volume di racconti, la risposta.

Buzzati si rivolge a Dio cominciando la sua supplica con la frase “Dio che non esisti ti prego”. “Ma se non esiste perché lo preghi?”, gli domanda un ipotetico interlocutore. “Non esiste fintantoché io non ci credo… ma se io lo chiamo… Per la forza terribile dell’anima mia, forse vile, trascurabile in sé, però anima nella piena portata del termine, se lo chiamo verrà.”

Il che, come avrebbe scritto un altro autore di quei tempi, Guareschi, è bello e istruttivo.

Francesco Pasquali