Anno 1 | Numero 8 | Maggio 1998

La storia comincia con Michele che si agita, insonne, fra le lenzuola di un letto estraneo, tormentato dai propri pensieri. Non riuscendo a dormire si alza, e va a sedersi di fronte a una finestra aperta. Si accende una sigaretta, e mentre fuma ripensa alla lunga serie di vicende e disavventure che l’hanno condotto fino a quella sperduta camera di albergo nella quale si trova, per la terza volta nella sua vita, a dover ricominciare da capo.

I suoi ricordi partono da lontano. Partono dall’Italia, paese nel quale è nato e dal quale, molti anni prima, ha dovuto fuggire. E mentre nel riquadro oscuro della finestra si consuma un’interminabile notte tropicale, Michele ripercorre con la memoria le tappe della sua vicenda: il suo arrivo in Messico, le prime esperienze in quel paese straniero, le amicizie, l ‘amore per Isabel e tutto ciò che, nel bene e nel male, quell’amore ha provocato nella sua vita.

Scrivendo questa storia pensavo al Messico, dal quale sono stato affascinato, e pensavo alle atmosfere, così intense, che la letteratura latinoamericana ha sempre evocato in me. Pensavo a quella specie di vocazione alla sconfitta e di predestinazione al dolore che sembrano accompagnare, come una sorte ineluttabile, i personaggi delle storie che ho letto con malinconia ed entusiasmo, con allegria e stupore.

Il mio romanzo comincia dalla fine. Michele, o Miguel, viene sorpreso al termine del suo viaggio, affacciato a una finestra, mentre assapora l’aria fresca della notte e ripensa agli anni trascorsi in Messico e al lungo itinerario in quella terra straniera nella quale si è rifugiato per cercare asilo, riuscendo, quasi inaspettatamente, a trovare qualche amico sincero, nuove speranze, un amore travolgente, e dove ha finito per perdere tutto, anche lui votato alla rovina, al fallimento, al dolore, proprio come quei personaggi, epici e malinconici, che popolano le pagine di Horacio Quiroga, Alvaro Mutis e Osvaldo Soriano.

Scrivendo questo romanzo, in fondo, volevo a mio modo saldare una serie di debiti.

Il primo, come accennavo, è con il Messico, paese che mi ha stregato con i suoi sapori indimenticabili e con i colori che ancora mi pare di avere impressi nella retina, e che spero di poter tornare ad ammirare al più presto.

Il secondo è nei confronti degli autori che ho nominato prima, ma naturalmente anche di molti altri, alcuni dei quali voglio citare: Roberto Arlt, Jorge Amado, Ernesto Sabato, Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Julio Cortazár, Gabriel Garcia Marquez, Luis Sepúlveda, Paco Ignacio Taibo II, José Pablo Feinmann, Isabel Allende. Desideravo, insomma, rendere un piccolo e certo inadeguato omaggio a quegli scrittori che ho tanto ammirato, e che hanno saputo farmi innamorare – proprio come accade al protagonista del mio racconto – di quelle terre magiche e lontane, di quegli odori e di quella folla di personaggi – un’umanità affamata e vitale, dolente e fantasiosa, calpestata ma mai sconfitta – che popola i loro romanzi.

Ma il debito più grosso è con mio padre, che nel dopoguerra, poco più che ventenne, è emigrato, partendo da un piccolo paesino della provincia di Bologna verso l’America del Sud, e che, quando io ero un bambino, ha saziato la mia vorace golosità di storie continuando a raccontarmi pazientemente le avventure che aveva vissuto laggiù, in quei posti straordinari e fantastici, aggiungendo ogni volta nuovi particolari, non importa se veri o inventati.

Sono sicuro di non aver saldato in maniera soddisfacente i miei debiti, ma spero che almeno qualche brandello di tutte queste suggestioni sia rimasto impigliato fra le pagine del mio libro, e abbia potuto infondere un po’ di sapore e di luce a questa mia piccola storia.

 

L’autobiografia nel 1998

Giampiero Rigosi è nato a Bologna nel 1962. Ha un cane di nome Cesare (come Pavese) e un gatto di nome Marlowe (come il detective). Ama il cinema, i viaggi, la buona cucina e le bevute con gli amici.
È laureato in Filosofia, esperto di letteratura noir, e per sopravvivere ha fatto ogni genere di lavoro. Attualmente tiene corsi di scrittura creativa e guida gli autobus pubblici su linee urbane ed extraurbane (professione che, oltre a consentirgli di “rubare” storie colte al volo tra un semaforo rosso e una fermata, gli permette di percorrere una media di chilometri pari a quella del Jack Kerouac dei tempi d’oro).
Ha pubblicato numerosi racconti su quotidiani, riviste e antologie. Il suo primo romanzo, Dove finisce il sentiero, è uscito nel 1995, mentre dell’anno seguente è la raccolta di racconti neri dal titolo Chiappe da apache – entrambi per Theoria.

Biografia aggiornata

Romanziere e sceneggiatore, ha pubblicato con Theoria, MobyDick, ADN Kronos, Walt Disney ed Einaudi (dal suo romanzo Notturno bus è stato tratto un film per la regia di Davide Marengo, con Giovanna Mezzogiorno, Valerio Mastandrea ed Ennio Fantastichini).
I suoi libri sono tradotti in diversi paesi.
L’ultimo suo romanzo, edito da Einaudi per i Big di Stile Libero, è L’ora dell’incontro.
Ha scritto radiodrammi e collaborato con diverse fiction televisive, tra cui Distretto di Polizia, L’Ispettore Coliandro e Crimini.
Per il cinema, ha collaborato con Roberto Faenza alla sceneggiatura del suo film Prendimi l’anima e ha scritto, assieme a Fabio Bonifacci, la sceneggiatura di Notturno bus.
Ha tenuto corsi di scrittura e sceneggiatura, tra gli altri, presso la Scuola Holden di Torino, il corso Rai-Script (Roma) e la Scuola di scrittura Zanna Bianca (Bologna).
È tra gli organizzatori della Bottega di narrazione Finzioni di Bologna.

 

Il libro nel 1998

Giampiero Rigosi
COME LE NUVOLE SOPRA VERACRUZ
Mobydick 1998, pp. 77
L. 16.000

 

 

“Come le nuvole sopra Veracruz” attualmente è fuori catalogo

 

Una pagina da: “Come le nuvole sopra Veracruz”

Eppure c’è qualcosa di inebriante, oltre che disgustoso, nell’odore aromatico di queste lenzuola, intrise del sudore ormai secco di decine di uomini. Il loro sentore quasi speziato e l’afa soffocante di questa notte, certo, ma ancora di più i miei pensieri, mi impediscono di prender sonno. Perfino il vento che entra dalla finestra spalancata non porta sollievo. Sdraiato su questo letto estraneo, immerso nella miscela di odori di chissà quanti altri sconosciuti, fisso l’oscurità del soffitto sopra di me. […]

Non riesco più a restare sdraiato, e decido di alzarmi. Poggio i piedi nudi sul pavimento di legno, e adagio mi allontano dal letto. Gettati sulla spalliera di una sedia ci sono i miei calzoni. Li infilo, poi mi siedo di fronte alla finestra. Respiro a pieni polmoni il vento tiepido che soffia contro la facciata della casa. Mi tiro indietro i capelli. Appoggio il gomito al davanzale, il mento nel palmo della mano, e resto a guardare fuori, la strada deserta. Non posso impedirmi di pensare al passato, ancora e ancora, senza riposo.

Penso a Isabel, naturalmente. A Isabel, alla grassa e allegra Matilde, al comandante Adilio Pioquinto Monterola, a Ramirez, al piccolo Fernando, e a come tutto sia andato in malora così in fretta, e per sempre.

Penso al lungo giro a vuoto delle mie ultime settimane, durante le quali ho inseguito un sogno, una vendetta impossibile, un ricordo e un rancore. Un lungo percorso inutile che mi ha portato fin qui, a guardare questa strada deserta, nel buio afoso di una notte tropicale. Il giro a vuoto: Veracruz, Merida, Valladolid, Felipe Carillo Puerto, Aguascalientes, San Cristóbal de las Casas, e poi giù verso Sud, attraverso tutto il Centro America, fino al Venezuela, fino a questa stanza di Puerto Cabello, dove l’aria è così calda da sembrare irrespirabile, e dove, appena due ore fa, ho fatto l’amore con una ragazza di cui non ricordo il nome, ma che ieri sera, passandomi accanto, si è gettata i capelli su un lato della fronte con un movimento del braccio che, per un istante, mi ha riportato alla memoria Isabel, e con quel gesto ha precipitato il mio animo in un cupo abisso di nostalgia ormai inguaribile.