di Luca Blengino per exlibris20

Da quando lavoro con le narrazioni, di rado sono incappato in un termine più sfuggente – approssimativo e dai confini incerti, per quanto ormai largamente sdoganato – di graphic novel. Voglio dire: nemmeno ci si è ancora messi d’accordo su come coniugarlo in italiano – la graphic novel? Il graphic novel? È un mistero: la Crusca, pur indicando preferibile il maschile, ammette di buon grado anche la versione femminile.

Ora, chiedete a dieci professionisti della Nona Arte una definizione di graphic novel: ne riceverete dieci diverse. Se non undici. O dodici. Se allarghiamo la domanda ai lettori di fumetto la faccenda diventerà ancor più ingarbugliata. Tiriamoci in mezzo critici ed esperti a vario titolo e non si sfuggirà dal ginepraio.

Quello di graphic novel è un concetto-anguilla. Una saponetta che schizza via da qualsiasi pretesa di esattezza. Per ogni definizione gli (o le?) si cerchi di dare, spunterà sempre qualche eccezione che andrà a confutare teorie, imbrogliare carte, frustrare ogni tentativo di messa a fuoco.

Mi dicono che graphic novel sia quel tipo di fumetto strutturato come un romanzo, autoconclusivo, dotato di un suo arco narrativo completo e non legato alla serialità; ma in questo caso Una Ballata del mare salato di Hugo Pratt, pubblicato a puntate con il passo del feuilleton nel ’67 (sulla rivista Sgt. Kirk prima e sul Corriere dei Piccoli poi) non sarebbe graphic novel – e per contro è definito alla quasi unanimità come tale. (Curiosamente, stesso destino riservato al Pentothal e al Pompeo di Andrea Pazienza: oggi siamo abituati a rileggerli in ricchi volumi monografici, ma all’epoca furono pubblicati a frammenti tra il ’77 e l’86).

Graphic novel, ribatte qualcuno, vuol dire contenuti maturi e riservati a un pubblico adulto: ma se così fosse, a voler essere maligni, potremmo far rientrare sotto l’ombrello anche il Necron di Magnus, Sukia la Vampira, Ulula o altre gloriose creazioni del porno a fumetti anni ‘70 / ‘80. E non considerare invece romanzo grafico quel gioiello di narrazione per l’infanzia che è Viola Giramondo di Teresa Radice e Stefano Turconi, uscito per i tipi di Tunué nel 2013.

Ma “adulto” nel senso di profondo, intimista!, osserva qualcun altro: e allora torniamo a Pratt e al suo Corto, avventura scatenata nell’accezione più letteraria del termine; o pensiamo a La rivolta dei racchi di Guido Buzzelli del ’66, altro caposaldo del genere – un bizzarro, grottesco pastiche fantasy-trash; o ancora alla maestria con cui Gipi passa da romanzi più squisitamente virati al quotidiano – quando non all’autobiografico (LMVDM, Questa è la stanza) – a devastanti incursioni nel genere (il noir: Hanno ritrovato la macchina; il bellico: Appunti per una storia di guerra; il post-apocalittico: il recentissimo, sublime La terra dei figli). (E per contro: quanto intimismo, quante schegge di vissuto possiamo intuire nell’ultrapopolare Dylan Dog di Sclavi, nel Ken Parker di Berardi e Milazzo?…)

Graphic novel è autorialità! esclama qualcuno da in fondo alla sala. Solo l’autore completo, padrone di testo e disegno e non vincolato dalla dinamica classica sceneggiatore / disegnatore – e relativo filtro che va a diluire la potenza espressiva di cui solo lo scrittore capace di disegnare è dotato può fregiarsi del titolo di autore di romanzi grafici. Dunque, non potremmo definire graphic novel Tutto ricominciò con un’estate indiana, scritto da Pratt per i pennelli di Milo Manara nel 1983? O il sontuoso, dolente Alack Sinner, creato dagli argentini José Muñoz e Carlos Sampayo per i tipi di Alterlinus nel 1975? E ancora, per definizione, dovremmo considerare la quasi totalità dei manga – da sempre affidati all’autore completo – dei / delle graphic novel da decine di migliaia di pagine?

Tirando le somme, la mia (personalissima) opinione è che il termine sia ormai del tutto privo di senso, posto che mai in passato ne abbia avuto uno: una specie di definizione-piglia-tutto, buona per circoscrivere certe tipologie di narrazione sequenziale in certe circostanze e, a volte, un certo tipo di lettorato – io non leggo fumetti, leggo graphic novel!, giuro: mi è capitato di sentire anche questa! Per quanto mi riguarda preferisco parlare, semplicemente, di fumetti. E lasciare al lettore decidere cosa sia letteratura disegnata: la Saga dei Paperi di Barks? L’Uomo che cammina di Taniguchi? Madman di Allred?

Per concludere, una curiosità: nel settembre del 1945, l’Italia che usciva in pezzi dalla guerra, il coraggioso editore Giulio Cesare Ventura fondava una – omonima – casa editrice di fumetti. La Ventura Editore si specializzò in adattamenti di opere letterarie (I tre moschettieri, I Miserabili) e lanciò sul mercato una nuova formula, quella del picture novel – nome roboante inventato là per là: storie autoconclusive, in formato romanzo, dai contenuti adulti – alcune delle quali sceneggiate dallo stesso Ventura sotto l’esotico pseudonimo di G.C. Arutnev. I tempi non erano maturi e l’esperienza fallì nel ’47, ma – stando almeno ad alcune definizioni che ho cercato di dare qui sopra – a Ventura resterà il merito di aver inventato il (la?) graphic novel con vent’anni buoni d’anticipo rispetto a quell’ormai leggendario Contratto con Dio di Will Eisner che, ufficialmente, è ritenuto il capostipite del genere.

Luca Blengino lavora dal 2002 come sceneggiatore di fumetti, scrittore e docente di tecniche della narrazione. Ha pubblicato in Francia, Spagna, Italia, Olanda, Belgio, Stati Uniti, Inghilterra, Australia. Vive e lavora a Cuneo.