Ex-Libris-0-7-8

Anno 0 | Numero 7 | Aprile 2017

LA CHIMERA

Non so se tra rocce il tuo pallido

Viso m’apparve, o sorriso

di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O regina o Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

segnato di linea di sangue

nel cerchio delle labbra sinuose,

Regina della melodia:

Ma per il vergine capo·

Reclino, io poeta notturno

Vegli ai le stelle vivide nei

pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero,

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le

mute fonti dei venti

E l’immobilità dei firmamenti

E i gonfi rivi che vanno

piangenti

E l’ombre del lavoro umano

curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane

chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chi amo

Chimera.

1885 – Intorno a Dino Campana, “poeta pazzo”, s’agita un mondo di immagini e di simboli.

Egli porta con sé, come forse ogni poeta autentico, l’ombra di un fragile conquistare – riconquistare se stesso nell’azzurra e Mistica Chimera – Poesia, sogno e bagliore, intravista appena dietro una torre, in un vicolo di una città di mare, lungo l’argine di un fiume, e già perduta.

E questo potersi ritrovare, essendosi perso, nella e solo nella parola poetica, questo desiderio di ri-nascere, puro e solitario, ad un nuovo mondo di bellezza ed autenticità, è salvezza per il poeta ed insieme tragica separazione dal mondo (Hölderlin chiuso nella torre prigione e Campana fra le mura manicomiali, solo e dimenticato, a spendere gli ultimi vent’anni).

Nella visione campaniana, in fatti, la poesia, di venuta religione e voto, esige il sacrificio di una vittima innocente, e, mentre gli altri osservano impassibili (la cultura serva e conservatrice, “ricoperta del sangue del fanciullo”, il mondo dei parvenu, una “generazione di ladruncoli”), per Campana il momento del ritrovamento coincide con l’allontanamento, l’incomprensione, la pazzia e la morte dell’“uomo” fra gli uomini.

Mentre questi ultimi “vagano come spettri”, nell’Italia in cammino fra i due secoli, fra l’estetismo dannunziano e i tentativi funambolici del futurismo, Dino, libero da ogni scuola, senza mestiere senza fissa dimora, anela ad un “cielo non deturpato dall’ombra di nessun Dio”, all’elemento primo, alla vita primigenia, e girovaga, i vasti spazi stellati ed i mari neri, la Pampa argentina animata dalle chitarre e dal vento, la Toscana, terra di bellezza e tradizione, terra di Dante e Francesco e del grande canto italiano, ed infine Genova, bianca e salvatrice nel ricordo, approdo e porto chiaro dell’umile ed onesto lavoro umano, ma dura anch’essa, e devastatrice come il mondo immerso e perduto nella grande notte nera del Caos.

Durante il viaggio – concreto e poetico insieme – confluito tutto nell’unica opera pubblicata in vita: i Canti orfici (prima edizione autoprodotta del 1914, testo della vita travagliata, stampato, poi perso, ripubblicato e continuamente rivisto, infine dimenticato dall’autore stesso, alle prese con la sconvolgente esperienza della malattia mentale e del ricovero), si sono aperte per Lui terre verdi ed oceani, le ardue catene alpine pure e solitarie; un cielo perennemente occhiuto di stelle dall’Italia all’Argentina ha investito per un attimo il mondo di speranza e dolcezza. Fra piroscafi e povere camere, tendoni da circo e lunghe strade assolate, il poeta ha sperimentato l’ardere della parola, l’ardere vano e amoroso e feroce, la necessaria se pur devastante fuga dal mondo che tenta di tacitarlo, e l’inevitabile e folle moltiplicarsi di sé (così Campana è insieme il Russo, pittore ed anarchico, Regolo “impestato a più riprese, con in testa il demone della novità che lo gettava a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre”, Faust, amante di prostitute, giovane e bello, ed il fanciullo sacrificato, in una allucinante immagine finale).

Se dunque ogni poeta, come dicevamo, vive la perdita e riconquista di sé nella Parola, molti hanno però premura di costruire una comoda casa o diga solida che li protegga dalla follia come abbandono inarrestabile del mondo consueto per ciò che Campana chiama “l’irreparabile”.

Solo un essere religioso e debole e votato al fallimento come Campana, che mai si è “piegato a sacrificare alla mostruosa assurda ragione” è destinato a soccombere, immolato sull’altare della “cultura” istituzionale, che sempre disprezza e teme una splendida, pericolosa cometa. – 1936

Elena Varvello

“così puri come due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all’irreparabile”

In libreria

canti-orficiDino Campana
Canti orfici e altre poesie
Garzanti, 2007

Collana: I Grandi Libri
XXXIII-177 p., brossura
€ 9,00

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Biografia

Poeta italiano. Visse una giovinezza travagliata, che lo portò a interrompere gli studi di chimica pura all’università di Bologna; dopo un ricovero al manicomio di Imola (1906), iniziò una serie di vagabondaggi, in Svizzera e in Francia (1907).
Nel 1908 è in Argentina, dove lavora come bracciante; poi a Odessa, Anversa, Bruxelles, Parigi.
Nel 1909 è di nuovo ricoverato, in una clinica di Firenze. Riprende, due anni dopo, senza alcuna fortuna, gli studi universitari.
Nell’autunno 1913 porta a Firenze, per consegnarlo a Soffici e Papini, il quadernetto dei suoi Canti orfici; ma, nella primavera successiva, è costretto a riscriverli, perché Soffici ha perduto il manoscritto; e li fa stampare privatamente da un tipografo di Marradi (1914).
Segue una nuova fase di viaggi (a Torino e, di qui, a Ginevra), cui si alternano un altro soggiorno in clinica e una tumultuosa relazione con Sibilla Aleramo (1916-17), che precede il ricovero definitivo di C. nel manicomio di Castel Pulci (1918).
Molti suoi scritti usciranno postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto faentino (1960); mentre è del 1973 la pubblicazione del famoso manoscritto perduto, Il più lungo giorno, recuperato fra le carte di Soffici.
Ultimo e insigne esponente di una visività enfatica, di tradizione carducciana, che assume, nei suoi versi, le connotazioni dell’allucinazione, della fantasia onirica, C. amplifica e trasfigura le immagini e gli oggetti di una realtà umile e proletaria, conferendo a essi una patina antiquaria cui non è estraneo l’influsso dannunziano. Ma, al di là delle interferenze di altre letture molteplici e diversissime (Rimbaud, Nietzsche, la poesia futurista), i suoi versi e la sua prosa poetica si caratterizzano anche per una componente fonico-musicale, ossessivamente ripetuta, che mira a una dimensione simbolico-metafisica dominata da misteriose figure di archetipi e anticipa in parte le successive esperienze della poesia ermetica.

Fonte: Enciclopedia della Letteratura, Garzanti 2007 tramite ibs.it