Immaginate un’aula di un tribunale inglese, negli anni ‘50. Fuori piove a dirotto. Dentro si svolge un processo un po’ particolare, in cui sono chiamati a testimoniare i maggiori scienziati europei degli anni ‘20-30. Devono decidere se Fritz Haber, chimico tedesco, premio Nobel nel 1920 per la scoperta della sintesi dell’ammoniaca, sia colpevole di crimini di guerra.

Il chimico infatti aveva sfruttato le sue ricerche presso l’Istituto Kaiser Wilhelm per produrre in modo semplice l’iprite, il famigerato gas che cambiò il corso della Prima Guerra Mondiale. Alla soglia della Seconda Guerra, come recita il sottotitolo del libro (Tiziano Colombi, Gas. Fritz Haber, inventore dello Zyklon B, Mimesis Edizioni, 2014), Haber era riuscito a sintetizzare lo Zyklon B, nato come potente insetticida, quindi potenzialmente utile per la società e lo sviluppo, usato dai tedeschi per lo sterminio di massa nei campi di concentramento. La stessa sintesi dell’ammoniaca, che valse a Haber il premio Nobel, è l’emblema di una concezione ambivalente della scienza: da un lato ammoniaca vuol dire fertilizzanti, quindi aumento della produzione agricola e riduzione della fame. Dall’altro, l’ammoniaca è alla base dei più comuni esplosivi, di nuovo un richiamo a guerra e morte.

Il libro si apre dunque con la sfilata dei testimoni, per lo più scienziati che avevano lavorato a stretto contatto con Haber. Il processo è il pretesto per raccontare la vita professionale del chimico Haber, le sue capacità, la sua determinazione, ma anche il suo nazionalismo, la sua cieca fiducia nella scienza e nella scienza al servizio della patria. Sue sono le parole “La scienza è dell’umanità in tempo di pace; della patria in tempo di guerra”. Haber andrà di persona al fronte a sperimentare gli effetti dell’iprite. E sembra sia per queste convinzioni che la moglie Clara, chimico anche lei, si toglierà la vita.

Il romanzo si chiude con la lettura della sentenza, pronunciata da Karl Popper, ma intuibile dal lettore nelle pagine di tutto il romanzo. L’autore non dà giudizi netti fino alla fine, si limita a raccontare gli episodi salienti della vita del chimico e le sue decisioni testarde, accompagnando il lettore a formarsi un’opinione sulla figura dello scienziato.

La questione dell’etica della scienza era attuale nel 1954, in un’Europa reduce da due guerre mondiali, nelle quali la scienza – la chimica – aveva giocato un ruolo importante e distruttore. La stessa questione è attuale oggi, con una situazione politica internazionale in cui le conoscenze scientifiche e belliche possono portare a conseguenze davvero terribili.

Non è un libro semplice, per capirci non è una lettura da ombrellone. Ritengo tuttavia importanti gli interrogativi che pone, per i cittadini, ma soprattutto per gli scienziati. Fino a che punto la scienza deve essere per così dire assecondata a scapito della vita umana? E Haber: è stato un testardo carnefice, consapevole delle conseguenze delle sue ricerche, oppure una vittima anche lui dell’ingranaggio? Colombi non punta il dito contro la scienza, non per niente riunisce come testimoni e giurati un gruppo di scienziati eminenti, persone che tuttavia nelle stesse circostanze in cui si è trovato Haber hanno compiuto scelte differenti. Si chiede – ci chiede – fino a che punto gli scienziati sono consapevoli e responsabili delle ricadute delle loro ricerche e scoperte, in positivo e in negativo. Fino a che punto la scienza e la ricerca devono andare avanti? Dove si collocano l’etica e il bene della società nella corsa verso nuove scoperte?

Non tutti gli scienziati sono come fu invece Haber. Molti, come scrive Telmo Pievani nell’ottima prefazione, preferirono dire no, per fortuna.

Silvia Barra