Ex-Libris-0-7-6

Anno 0 | Numero 7 | Aprile 1997

“Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte”. Questo è l’esordio del lungo racconto ambientato nelle montagne più ostili della Calabria. Suona come un avvertimento e come un’intimazione ad abbandonare immediatamente ogni velleità evasiva e di divertimento. Corrado Alvaro non insegue il lettore, non accondiscende il piacere di una scrittura accattivante. Il tempo narrativo è lento, occorre pazienza e volontà di muoversi dentro quello che fu definito dai critici “segreto alvariano”. La prima pagina di Gente in Aspromonte richiama un mondo trascorso, rievocato ormai solo nelle favole dei nonni; vi si trova un sentimento della natura come appare nella solitudine dell’infanzia, ma anche la coscienza di una civiltà contadina che scompare: “… su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre il maggior numero di memorie”. La Calabria che viene raccontata è collocata fuori dal tempo e fuori dallo spazio, è un luogo immobile come nelle tragedie greche, chiuso alle ingerenze della Storia e allo stesso tempo attraversato da tutti i suoi significati come in un anfiteatro della totalità. Il motivo del segreto alvariano si svolge nell’aria del mito: lo si capisce dal modo in cui le parole vengono utilizzate al di là di un facile realismo e alla ricerca del loro valore magico ed evocativo.

Il pastore Argirò e suo figlio sono i protagonisti principali della storia che si svolge nella ricerca di una condizione di vita migliore e affrancata dalle dipendenze verso i proprietari terrieri Mezzatesta. La vita è al limite della sussistenza e ogni difficoltà può essere fatale, la rovina che deriva dalla perdita accidentale delle bestie del padrone costringe tutti i componenti della famiglia a raddoppiare gli sforzi. Quando il pastore Argirò comunica la disgrazia al padrone Filippo Mezzatesta questi si prende gioco di lui e delle sue disgrazie cacciandolo divertito come se fosse lui il danneggiato reale. La logica del sopruso e del privilegio governa l’ineffabile universo rappresentato da un paese dai contorni sfumati e nella cui piazza vengono messi in scena 1 rapporti di forza dove a farla da padroni sono i figli dei padroni che frequentano l’Università e si fanno beffe dei figli dei contadini che non hanno nemmeno i pantaloni e le scarpe. Quest’ordine sembra destinato a ripetersi all’infinito senza possibilità di chiedere aiuti esterni, perché lo Stato è un concetto vago e indefinito che non ha nessun ruolo essenziale da rivendicare. Un’assoluta assenza dovuta al fatto che il Sud è terra straniera e incomprensibile, dove è meglio perpetuare l’ordine ereditato dal Regno delle Due Sicilie. Eppure gli Argirò cercano cocciutamente e poeticamente di non cadere, di essere dignitosi sino alla fine, di migliorare; ecco perché Antonello fugge come un profugo in città con la benedizione di suo padre ed ecco perché il figlio più piccolo, Benedetto, viene iscritto al seminario per studiare da prete. A questo punto un incendio doloso costringe Benedetto e Antonello a ritornare a casa, ma neanche questa circostanza convince gli Argirò della fine, questa volta saranno le donne ad essere protagoniste di un cambiamento che è soprattutto presa di coscienza della necessità di scardinare in qualche modo lo status quo nel quale i benestanti sono arroccati, dediti a conservare l’esistente e incapaci di accorgersi che il vento sta cambiando. Questa presa di coscienza fornisce ad Antonello il coraggio di dar fuoco al bosco dei Mezza testa consacrando una sospirata festa e una sospirata volontà di insurrezione da troppo tempo sopita. La conclusione vede l’intervento dei carabinieri il giorno dopo e Antonello che afferma ironicamente: ‘‘Finalmente potrò parlare con la Giustizia. Che ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!”. Conclusione ideale per una questione meridionale mai conclusa e forse mai realmente avvertita come problema di un paese che porta con sé i fantasmi di un passato ancora troppo presente.

Davide Mollica

“Non resistevo e stavo sempre malato. Io lo sapevo che cos’era: debolezza. Come può campare di pane solo uno che lavora?”

In libreria

gente-in-aspromonteCorrado Alvaro
Gente in Aspromonte

Garzanti, 2000
Collana: Gli Elefanti
181 p., brossura
€ 9,50  

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Corrado Alvaro (San Luca, Reggio Calabria, 1895 – Roma 1956) scrittore italiano. Combatté nella prima guerra mondiale, e da quella amara esperienza nacquero le sue Poesie grigioverdi (1917). Collaborò al «Mondo» di G. Amendola e tra il 1930 e il 1935 viaggiò all’estero come inviato speciale di grandi quotidiani. Nel ’46-47 diresse il quotidiano «Risorgimento» e fece le sue prime esperienze narrative con i suggestivi racconti de L’amata alla finestra (1929), ispirati alla sua terra d’origine e ai suoi antichi miti; ma rivelò una maggiore originalità di temi e di linguaggio con Gente in Aspromonte (1930), in cui la rappresentazione realistica della vita calabrese si fonde con la rievocazione sentimentale di un mondo popolare arcaico e magico. La tecnica narrativa, capace di unire coralità e sottigliezza di analisi, mostra di far tesoro delle più avanzate esperienze della cultura europea. Dopo L’uomo è forte (1938), romanzo dell’angoscia collettiva dai toni allegorico-politici, e i racconti di Incontri d’amore (1940), la tematica regionale si arricchisce di più pungenti implicazioni sociali e psicologiche, come nella trilogia di romanzi L’età breve (1946), Mastrangelina (1960) e Tutto è accaduto (1961), che narra le esperienze di un giovane calabrese inurbato. A. scrisse anche opere di carattere saggistico e diaristico (Itinerario italiano, 1933; Quasi una vita. Giornate di uno scrittore, 1951, premio Strega; Il nostro tempo e la speranza, 1952) e un romanzo rimasto incompleto, Belmoro (1957), in cui tentò il genere fantastico-grottesco, ricorrendo alla forza del paradosso per denunciare le costrizioni e le degenerazioni della società dei consumi. Nel testo teatrale Lunga notte di Medea (1949) propose una rilettura critica della mitologia classica.

Fonte: ibs.it