Anno 1 | Numero 10 | Luglio 1998

Quasi sempre noi parliamo, e quindi ragioniamo, come se fosse possibile isolare il buono dal cattivo. Non proprio semplice, ma comunque possibile. Così è per la politica, per la giustizia, per l’utilizzo delle scoperte scientifiche e in genere per ogni tipo di relazione che si instaura tra gli esseri umani. È un istinto, un riflesso della mente. Quasi sempre l’azione che ne deriva non migliora la situazione, non separa il buono dal cattivo, e a volte, anzi, aumenta il nostro imbarazzo.

Nel corso dei millenni abbiamo preso in esame centinaia di correttivi a tale inconveniente, forse migliaia, e alcuni di essi sono entrati a far parte del nostro corredo. Ma le cose, da un certo punto di vista, non sono cambiate: l’operazione di isolamento del bene (o del male) è tuttora impossibile, anche se è possibile ragionarci sopra con maggiore cognizione di causa. La qual cosa ha prodotto un considerevole aumento del benessere (alimentare, igienico, immobiliare, veicolare) e un considerevole aumento del malessere (atomico, psichico, relazionale, ambientale).

Si sa che la letteratura si occupa prevalentemente del malessere. Il romanzo, in particolare, è molto spesso un tentativo di radiografare una situazione, una famiglia, una comunità, un momento storico, una rete di rapporti, allo scopo di impressionare, di fissare sulla lastra di quella radiografia il grumo di buono e cattivo, quel nocciolo originario che, ora come sempre, è alla base del nostro istintivo parlare, del nostro ragionare. La letteratura lo ritrae, lo fissa – quando ci riesce – ma è chiaro che ne può trarre solo l’immagine di un malessere, nient’altro di certo. Niente, comunque, che assomigli a una soluzione.

E tuttavia il romanzo procede, cammina. Non solo perché formalizza, quindi nobilita e a volte sublima la nostra attività preferita – il raccontarci –, ma perché in quell’immagine di malessere, impressionata sulla lastra, ci pare di poter cogliere la differenza, di poter isolare – momentaneamente – il buono dal cattivo, e così dare soddisfazione a quell’istinto che ci muove e insieme ci perseguita.

Il romanzo moderno però, quello del nostro secolo, trasferisce la propria attenzione sul malessere in quanto tale, su ciò che l’individuo – generalmente colui che scrive – prova o non prova, sulla sua ambivalenza, sull’autopercezione, sull’incertezza, sul dubbio, sul senso di vuoto. E questo spostamento, sulle prime eccitante perché ci tocca nel vivo, più vicino che mai al dilemma del nostro riflesso mentale, gradatamente ci disamora, affievolisce il nostro interesse, intossica il nostro desiderio di osservare quella lastra. Forse perché è riuscito nell’intento di isolare – non però il buono dal cattivo, ma il malessere, il senso di malessere, il malessere in quanto tale.

E così il romanzo muore. Ci sembra che muoia. Quanto più lo amiamo, tanto più ci delude, ci respinge, ci disgusta. Perché non è “positivo”? No. Perché non è “propositivo”? No. La sua carenza è un’altra: non ha più la forza o il coraggio di ritrarre un gruppo, una categoria, un coro, una comunità, un insieme di anime, ma solo si concentra sul sentire o sul non sentire, su ciò che per eccellenza appartiene alla sfera del “privato”. Manca la relazione, l’essere in relazione tra gli uomini. Manca il tempo, il movimento. E certamente non ci soddisfano quei tentativi di riprendere e di ripercorrere la strada perduta, perché comunque ignorano ciò che non ci è possibile ignorare, ovvero l’accanimento, l’occhio esasperato, l’ingrandimento di un particolare di quella lastra, che ora ci respinge ma che abbiamo assimilato, stampato per sempre sulla nostra corteccia cerebrale.

Siamo gli inconsolabili. Nessuno ci può restituire il passato, ma non riusciamo a impedirci di sentirne la mancanza. Vorremmo un presente all’altezza del passato. Siamo consci del malessere, troppo consci, e niente è più lo stesso, sebbene ognuno si sforzi di non rompere il filo. Ma ancora vorremmo eliminare la nostalgia, la rassegnazione non è per noi. Qualcosa cambierà, qualcuno tornerà e ci verrà in aiuto e noi lo accoglieremo e lui non saprà dire di no.

Dopo la decadenza Ishiguro apre una nuova stagione: ritrae gli inconsolabili, la molteplicità dei malesseri, il loro difficile convivere. Non ignora il problema, ma anzi vi si adagia, sprofonda, si lascia risucchiare. Come il suo Ryder, il grande pianista, ascolta con pazienza i lamenti di ognuno di noi, gli “Europei”, gli antichi, rimuove l’amnesia, riconosce a poco a poco lo scenario di un tempo, il “Vecchio Continente”, le passioni sepolte, i contrasti mai sanati…

Ryder non è in grado di rompere l’incantesimo, forse è troppo presto, o lui è troppo solo, troppo debole, troppo simile a chi implora aiuto. Ma qualcosa è ricominciato, e il tempo, finalmente, ha ripreso a scorrere.

Mario Giorgi
(pubblicato in “ex libris” n. 10 – luglio 1998)

 

Kazuo Ishiguro
Gli inconsolabili
Einaudi, 2012
Collana: Einaudi tascabili. Scrittori
554 p., brossura
Traduzione di G. Bona
€ 14,50

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