Anno 1 | Numero 1 | Settembre 1997

Passare in India, bere il tè nel deserto o assassinare sull’Orient Express. L’Homo Travel raggiunge tutto, consuma tutto. Ancora negli anni ’50 però, coloro che viaggiano appartengono a categorie speciali di persone.

I diari dei viaggiatori illustri incantano il medio comune mortale, mentre l’avvento del progresso spedisce in giro per il mondo l’ingegno tecnologico. Homo Faber è uno di loro. Uno che la ratio, la volontà non la ferma nessuno. Uno biondo nato in Svizzera, alto. Uno che prende gli aerei, uno che attraversa la pampa con la Land-Rover. Uno che il destino se lo fa da sé. Fino a che, un giorno Homo Faber si scontra con il caso, in viaggio. Il caso si sostituisce al prevedibile. Gli riporta tutto il passato tra le mani. Sta incontrando quella parte della sua stessa vita che lui ignora, in viaggio. Il viaggio sogghigna, lo prende per i fondelli.

“Non credo al destino o alla Provvidenza. Sono un tecnico, e perciò abituato a calcolare le probabilità. Perché destino? Ammetto: senza l’atterraggio di fortuna a Tamaulipas tutto sarebbe stato altrimenti; non avrei mai fatto la conoscenza di questo giovane Hencke, non avrei mai più sentito parlare di Hanna, non saprei ancora oggi di essere padre. È impossibile immaginare come tutto sarebbe stato diverso senza questo atterraggio forzato a Tamaulipas. Sabeth forse vivrebbe ancora.”

Sabeth. Prendi una nave per sfuggire a una donna petulante. La riesci a prendere per una coincidenza fortuita; è la prima volta che ti concedi il tempo di attraversare gli oceani con lentezza.

“Voglio solo dire: se non avessi smontato la macchinetta, quella chiamata non mi avrebbe mai raggiunto, vale a dire, il mio viaggio per mare non sarebbe stato possibile, per lo meno non con la nave che Sabeth prendeva, e non ci saremmo mai incontrati, mia figlia ed io.”

Ma Walter Faber non lo sa che la ragazza con la coda di cavallo bionda è sua figlia.

Lui una volta – prima di partire per Baghdad e assorbirsi completamente nella carriera – se n’era dimenticato per un bel pezzo: anche lui ha amato qualcuno una volta. Hanna.

“Mi dicevo che probabilmente ogni ragazza mi avrebbe ricordato Hanna, in qualche modo. In quei giorni io pensavo spesso a Hanna. Che significa poi somiglianza? Hanna era nera di capelli, Sabeth bionda, ovverosia rossiccia, e mi pareva molto forzato paragonarle tra loro.”

Se il viaggio improvvisamente si vendica, Walter Faber cerca di spiegare, spiegare tutto. Hanna era ebrea. La situazione politica internazionale di allora. L’interruzione di gravidanza oggigiorno è una cosa naturale. Joachim. L’altro medico, li avrebbe aiutati. Chi poteva immaginarsi che poi Joachim avrebbe sposato Hanna. E che lui l’avrebbe trovato impiccato in Guatemala, venti anni dopo, in seguito al suo atterraggio fortuito a Tamaulipas.

Chi si immagina di innamorarsi della propria figlia su una nave che da New York parte lenta verso il vecchio continente? E di accompagnarla in un viaggio attraverso l’Italia e poi in Grecia, e lentamente rendersi conto che lei è la figlia di Hanna, e la figlia di Joachim, probabilmente… ma potrebbe essere certo… anche… tua figlia?

“Non dimenticherò mai quel suo sguardo.

Lei, neanche una parola.

Mi rimisi a parlare, perché era impossibile sopportare il silenzio sulla mortalità per morsi di serpente, ovverosia sulla statistica in generale.

Hanna come sorda.

Non osavo guardarla negli occhi.”

Se c’è qualcosa di imprevedibile nel destino dell’uomo, se esiste una soprannaturalità, se l’uomo crede di potervisi sottrarre, allora arriva il serpente e avvicina la morte. Fu già così quell’antico libro; la Bibbia, una storia che non smette di influenzarci.

Max Frisch affronta in Homo Faber temi che sarebbero stati facili far scivolare nello scontato o nel patetico, con una asciuttezza che non compromette minimamente la loro capacità di toccare nel profondo. Alle radici del vivere umano – benché chiunque possa cercare di ignorarlo – c’è forse solo quel miracolo che è il nascere, quell’inevitabile nostro morire, e la coincidenza che decide la nostra morte fisica o morale che sia.

La dimensione del viaggio, scelta dall’autore per le sue due coordinate dominanti, quella dell’anomalo e quella dell’imprevedibile, diventa una cornice necessaria allo slancio del racconto e sufficiente a fare di esso un diario movimentato da ambientazioni affascinanti, da descrizioni perfette nel loro essere sempre calibrate tra lo stupore e il controllo della parola, mai ridondante, mai indifferente.

Max Frisch inventa una lingua in bilico; se l’equilibrio tra ragione e sentimento resta impossibile sul piano della storia, si realizza almeno su quello linguistico. ·

“Era la nostra quarta notte.

Da bere non avevamo più nulla.

Ero stanco morto, la terra come surriscaldata, stavo accovacciato con la testa fra le mani, sudando nel chiaro di luna azzurrastro. Tutt’intorno bagliori di lucciole. […]

Ad un certo momento – a un tratto non sentii più passi e guardai verso Herbert – stava là presso l’asino morto, senza tirar sassi agli uccelli saltellanti, stava là e guardava.

Per tutta la notte continuarono a divorare

Quando la luna calò finalmente nel tabacco, e la bruma umida sopra i campi smise di splendere come latte, riuscii ad addormentarmi; ma non per molto.

E ancora il sole!

L’asino giaceva sventrato, gli zopilotes erano sazi e stavano accovacciati sugli alberi circostanti come impagliati, quando partimmo senza una via.”

Scritto nel 1957 e ancora insuperato e insuperabile in quanto romanzo anticipatore di tempi e toni, su Homo Faber abbasserete la testa e probabilmente vi innervosirà ciò che, durante la lettura, vi potrà distrarre da lui.

Anna Bertini

“Tra il probabile e l’improbabile non c’è una differenza essenziale ma solo una diversità di frequenza, laddove ciò che è più frequente appare da principio più credibile.”

In libreria

Max Frisch
Homo faber. Resoconto

Feltrinelli, 2005
Collana: Vintage
Traduzione di A. Rendi
186 p., rilegato
€ 10,00

Compra il libro su Amazon

 

 

Altri articoli di Anna Bertini:

L’eredità di Tabucchi è un muro bianco
“Come potevo dire ciò che non sapevo?”
La saudade di Tabucchi