di Annalisa Menin

A dodici anni ho letto Marcovaldo e l’ho odiato. Solo anni dopo ho compreso che non è che avessi mal sopportato Marcovaldo o Italo Calvino (a quel tempo, gli scrittori erano la mano invisibile di chi di mestiere scriveva storie. Non avevano volti, come non fossero persone vere, ma solamente degli scrittori. O, al massimo, i protagonisti stessi delle loro storie[1]); il problema era stato l’obbligo di doverlo leggere per farne una scheda-libro. Sentivo già allora che era stata proprio quella resistenza lì, una acerba ribellione alla costrizione, a non farmelo piacere, come d’altronde ancora capitò con altri romanzi negli anni successivi.
Comunque, non fosse stato per il mio professore di Lettere delle medie che commentò, con un tocco leggero di inchiostro rosso che sembrava una carezza e non un rimprovero,  la mia distruttiva fanciullesca recensione con un “Rileggi Marcovaldo tra un po’ di tempo, senza fare nessuna schedatura”, non sarei qui a scrivere di Calvino e non avrei scoperto cosa significa dare una seconda possibilità.

La cosa strana è che non ricordo di aver mai riletto Marcovaldo (ho però ancora l’edizione Mondadori degli anni Novanta, quella con un acquerello di Francesco Clemente sulla copertina), ma so per certo che la seconda possibilità è stata concessa qualche anno dopo: ho vivida l’immagine di me stessa liceale, seduta a gambe incrociate nella mia camera, intenta a divorare Il barone rampante. Ricordo anche che quella volta mi era piaciuto tantissimo scriverne la dannata scheda-libro.
Comunque, per non sbagliare, quando l’insegnante sono stata io, ho sempre consigliato la lettura delle avventure di Cosimo sugli alberi e, semmai, mi sono ritrovata quasi a farne una recensione preventiva: “Fidatevi che è un libro bellissimo, vi piacerà!”. In ogni caso, non ho mai saputo come sia andata a finire, se qualcuno abbia mai seguito il mio consiglio, vai a sapere te.

Mi è stato chiesto di scrivere cosa significhi leggere Calvino oggi e io non riesco a fare a meno di dire cosa sia stato per me, in questi venti anni e qualcosa di più.
Solo adesso che ci penso mi rendo conto che Calvino è presente nella mia vita davvero da parecchio tempo, come un amico che sai che c’è anche se capita che a volte non vi sentiate per un bel po’.
A me è successo quando sono scesa dall’albero di Cosimo e mi sono fatta rapire dagli americani – soprattutto Kerouac e Salinger, prima di Hemingway – e dai contemporanei italiani, quelli amati dagli adolescenti degli anni Novanta – Benni, Brizzi e, soprattutto, Andrea De Carlo.

Come se non l’avessi mai fatto prima, ho iniziato a ri-leggere Calvino preparando la mia tesi di laurea. Saggi, soprattutto. E, con forse neanche troppo stupore, ho scoperto che in qualche modo tutto tornava.
Ad esempio, nell’anno della mia nascita (unico dettaglio trascurabile), Calvino scrive proprio a un giovane De Carlo: “[…] devi acquistare una maggiore padronanza dei mezzi letterari perché scrivere è anche un mestiere che si impara, trovando nelle tue letture dei modelli a cui confrontarti (come esempi di economia stilistica – o se preferisci di «spreco» – e come strategia di effetti) e esercitando il tuo senso critico in primo luogo su te stesso” [2].
Tutto continua a tornare, perché questo è ciò che è Italo Calvino: uno che ti dice di imparare un mestiere, di confrontarti con le tue letture, di avere senso autocritico; un signore (non riesco mai a pensarlo come ragazzo, sebbene lo abbia visto più volte ritratto in fotografie da giovane e anche addirittura da bambino) che quando parla balbetta, lì seduto di fronte al giornalista che lo intervista, e sembra un po’ svampito, fuori dal tempo – e, quindi, dallo spazio.

Di ciò che Calvino pensa sui classici sono costellati Wikiquote e l’intero Web (chi non ha mai sentito la citazione: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”? Ma dai!). Ciò che penso io è che il mio personale classico è lui. Proprio tutto. Anche ciò che non ho letto, e non ho letto parecchio della sua produzione romanzesca. Francamente, penso che sia il motivo per cui ho deciso di dedicargli uno spazio – e, quindi, del tempo – specialissimo nella mia attività di cartografa letteraria: sì, propongo i percorsi di C come Calvino per leggere Calvino, e nel modo più bello che c’è: di testa, di cuore, di pancia.
Ogni volta, qualunque cosa legga scritta da lui, mi dico: “ECCO”. Ma non è l’amara constatazione un po’ esistenzialista che tutto sia già stato detto e fatto (cosa che, peraltro, non credo fino in fondo): al contrario, è il wow, è la rassicurazione che le cose siano proprio così come penso anche io, è la lampadina che improvvisamente si accende e illumina un angolo buio che non avevo visto mai.

Chi mi conosce lo sa: Calvino per me è Italone, un nome accrescitivo che, con tenerezza e immensa gratitudine e rispetto, uso quando parlo di lui. E capita davvero spesso.
A lui in persona ho parlato una volta sola, l’anno scorso, quando sono andata a trovarlo a Castiglione della Pescaia. Tutte le signore anziane sedute nell’angolo della piazzetta al fresco sapevano dove fosse la sua tomba e come fosse fatta. Io, però, non la vedevo. Non riuscivo a scorgerla. E poi, eccola lì. Eccolo lì. Attorniato di rosmarino, a picco sul mare. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che il Père Lachaise non avrebbe fatto al caso suo, anche dopo aver trascorso molti anni a Parigi.
Gli ho detto qualcosa, in quel pomeriggio di fine Agosto, ho vissuto davvero quel momento sapendo che, in un modo o nell’altro, glielo dovevo, ma che non avrei per questo incominciato a parlare di lui al passato. Perché non esiste un Italo Calvino di ieri e uno di oggi; esistiamo noi, semmai, che non siamo più quelli di venti anni fa.
Lui è sempre lì, con la mente ingegnosa, il guizzo nella scrittura, la straordinaria capacità di far vedere. Il rigore scientifico e umanistico insieme, lo studio scrupoloso per la scelta della parola giusta, la miriade di immagini che una sua lettura scaturisce, l’impressione che le cose gli siano successe nonostante (e non malgrado) lui e la certezza che sia riuscito a racchiudere il suo mondo in un’enciclopedia che, ad aprirla, ti investe con mille versioni di questo mondo, tutte differenti e tutte legate.

Leggo molto spesso e scrivo meno di quanto vorrei, ma mai – e dico mai – ho pensato: “Vorrei scrivere come Italo Calvino”.
No, nessun altarino, nessun guru irraggiungibile. Semplicemente, non sarebbe possibile. Di testa, di cuore, di pancia.
Ed è straordinario così.

(Adesso Italone interviene ed esclama: “Ah ah, davvero, perbacco!”, come ricorda Carlo Fruttero. E la storia vera prosegue da qui).

[1] In risposta a una lettera inviatagli dagli alunni di una classe di una scuola elementare, Calvino scrive: “Mi chiedete se Marcovaldo sono un po’ io. Direi di sì, ma il fatto strano è che ho cominciato a sentirmi simile a Marcovaldo dopo aver scritto il libro. Quando lo scrivevo credevo che fosse un personaggio un po’ buffo un po’ triste ma molto diverso da me. Col passare degli anni invece…” (in I libri degli altri – Lettere 1947-1981, a cura di Giovanni Tesio e con contributi di Carlo Fruttero, Supercoralli, Einaudi, 1991). Domande così semplici e importanti forse solo i bambini sanno porle. E i grandi non possono evitare i puntini di sospensione, come se fossero impreparati o incerti sulla risposta. A memoria, Calvino raramente utilizza questo segno di punteggiatura. Non penso sia casuale!

[2] Nel già citato I libri degli altri – Lettere 1947-1981.