Anno 1 | Numero 4 | Dicembre 1997

Le vecchione erano vecchie prima che fosse vecchio il mondo e lui, che scriveva nel 1970 forse un poco le temeva. Loro avrebbero saputo leggere il destino dei disgraziati che partono sui gommoni per crepare in Adriatico o per tornare indietro con vergogna, ansia e foglio di via. Forse avrebbero saputo come fermarli. Ma erano gli anni settanta e per raccontare di Argirocastro bisognava travestirsi da realisti, un inchino al segretario e una storia di fantasmi in divisa che calpestano vecchie pietre a tempo di fanfara.

È La città di pietra di Ismail Kadaré, libro di segni e di quasi magie, soffiato tra le maglie di un criterio estetico imposto per decreto: narra di un’infanzia sorpresa tra le montagne di pietra, in mezzo a stupori e certezze mitiche, dall’arrivo di soldataglie straniere in orbace. C’è la storia sanguinosa della seconda guerra mondiale al passo sui selciati di Argirocastro da millenni offesa per terra e per mare e mai preparata a guardarsi dal cielo, e ci sono gli spettri locali, affiorati dalle pieghe strane del folclore balcanico o dalla tradizione di tutti. C’è Orfeo che cercherà la sua donna in cantina al suono delle sirene, ci sono demoni dallo scialle nero che camminano portando sul collo le teste mozzate, c’è Macbeth che ha ucciso il suo re ma ha dimenticato di impagliarlo a dovere e c’è un inventore che risponde alla follia della guerra con il miracolo del moto perpetuo, c’è l’amico dell’ombra, detenuto di professione, e le streghe che abbandonano alle soglie malefiche palle di pelo e unghie strappate, c’è la bella che uccide con lo sguardo e l’ingegnere nero al seguito degli invasori italiani. Ci sono le case, aggrappate una sul dorso dell’altra come se geminassero per natura dalla roccia di montagna, ci sono le vecchione che sorvegliano il passo della strada dalle ombre delle soglie, c’è l’ermafrodito, Argyr Argyri, autosufficiente e sterile come la città di cui usurpa una parte del nome. Ci sono spie, delatori, poliziotti e, insieme, leggende, miti, memorie di aggressori venuti dai confini del mondo. E c’è il bambino che tutto questo racconta, e la città identica alla vita che brulica nelle sue viscere, animale complicato di antenne, abbaini, altane, finestre e comignoli in costante comunicazione febbrile con il narratore. Eppure questo modo di raccontare si chiamava realismo socialista, che è come dire che ci sono più cose in cielo e in terra di quante se ne sognino nelle classificazioni letterarie. Nelle pagine più belle del libro gli oggetti si animano, pezzi di mondo prendono vita e movimento, come nelle quattro malattie della città, quando il racconto assume il ritmo della danza segreta delle cose e incarna il sospetto di tutti che di notte i sassi, i giocattoli, i fiumi vivano di vita sociale e parlino lingue aliene. Ci sono due modi di leggere il libro (astuzia balcanica o bizantina di uomini cresciuti nella necessità di scivolare fra le pieghe di un potere occhiuto e sempre accigliato): la sequenza dei fatti, atrocemente banali, della storia di un luogo votato da sempre e per sempre a essere periferia, oppure la decifrazione di sequenze disposte secondo un ordine che giustifica l’interpretazione in chiave mitico-magica, apparentemente secondo la forma percettiva di un bambino. Un trucco di Kadaré, il narratore bambino, per far dire alle vecchie pietre d’Albania, attraverso tre invasioni e un secolo crudele, della loro antica sapienza che allinea ogni cosa secondo quell’ordine che evoca corrispondenze segrete fra pezzi lontani del mondo e autorizza la natura a rispondere alle domande del mago. Sul basso continuo dei cannoni Kadaré racconta due modi irriducibili di guardare all’universo, costretti per sempre a convivere senza potersi confutare o conciliare. Lo fa impalcando un teatrino irresistibile fra comparse e macchiette, pagliacci shakespeariani e anime vaganti, mette in scena niente meno che la fine del mondo, la confusione delle lingue, il delirio degli umani. Lo fa infilando sul suo congegno narrativo di precisione ingegneresca un caos polivocale che simula il modo in cui le filosofie si formano: per accumulazione di frammenti linguistici abbandonati alla soglia dell’orecchio, risacca di suoni male articolati e interpretati più tardi. Qualche parola, ogni tanto si ferma a segnare una svolta della coscienza. Dove irrompe un nuovo nome nasce una nuova parte del mondo e, se gli eserciti che scivolano via sconfitti dalle vecchie pietre di Argirocastro ripetono sempre le medesime giaculatorie, a metà del libro compare un nome fino a quel momento ignoto: Albania.

Ecco, La città di pietra è il libro che vorrei regalare per Natale a tutti quelli che pensano agli albanesi come a un popolo rozzo.

Luca Rastello

 

Ismail Kadaré è nato nel 1936 ad Argirocastro, nel sud d’Albania. Narratore, poeta e critico letterario, più volte candidato al Premio Nobel, ha lasciato il suo Paese nel 1990, chiedendo asilo politico in Francia. È membro d’onore all’Accademia Francese.
Dalla caduta del regime comunista si divide fra l’Albania e Parigi.
Molti i suoi libri pubblicati in Italia, tra i quali Dante, L’inevitabile (2008), Il crepuscolo degli dei della steppa (2009), Il mostro (2010), La nicchia della vergogna (2011), L’ occhio del tiranno (2012), tutti editi da Fandango Libri. Escono inoltre Un invito a cena di troppo (Longanesi 2012), La bambola (La Nave di Teseo 2017). Nel 2009 vince il premio Principe delle Asturie per la letteratura e nel 2018 il Premio internazionale Nonino.

Fonte: ibs.it

Il libro nel 1997

Ismail Kadaré
LA CITTÀ DI PIETRA
TEA, 1996

L. 14.000

 

La città di pietra attualmente è fuori catalogo.