Non sono un critico. Sono un innamorato.

Parlare di Stephen King, scriverne, è un po’ come andare a cercare in un cassetto o in una scatola una busta piena di vecchie foto ingiallite, che mi ritraggono giovanissimo, la testa piena di capelli e di sogni. Significa ripescare ricordi in cui si intrecciano malinconia, avventura e gioia.

Una storia d’amore lunga quasi trent’anni è costellata di un’infinità di episodi, di litigi, incomprensioni, riconciliazioni e, soprattutto, di una devozione che ha impedito al trascorrere del tempo di trasformare il piacere in noia.

Ho capito tutte queste cose quando ho iniziato a pensare a cosa avrei potuto dire dell’autore che amo più di ogni altro, dello scrittore che ritengo sia il più grande narratore del pianeta e che ho difeso strenuamente nel corso degli anni, specie quando dichiarare il proprio amore per i suoi libri suscitava una specie di malcelato compatimento, come se volessero dirmi ‘Poveretto, pensa che quella roba sia letteratura’. King era solo un intrattenitore, uno scrittore di genere. Anzi, uno scrittore horror, robaccia per ragazzini e lettori di serie B.

E così, mentre pensavo a cos’avrei mai potuto aggiungere io alla sterminata quantità di cose dette e scritte su King, ho realizzato una cosa che mi ha spalancato gli occhi: non sono un critico. Sono un innamorato. Così innamorato da ricordare dove e quando ho letto tutti i suoi libri. Cos’hanno significato per me quando li ho letti, anche se di alcuni non ricordo quasi più nulla e mi riprometto spesso di rileggerli.

Mi è tornato in mente il periodo in cui ho iniziato davvero a leggere, cioè a perdermi dentro i libri, a sprofondare dentro le storie che leggevo. Avevo quattordici anni, era il primo anno di liceo. La sera andavo in camera di mia madre, mi sedevo sul lettone, accendevo l’abat-jour e spalancavo mondi. I primi a prendermi per mano e a mostrarmi quanto potessero essere potenti le storie, furono H.P. Lovecraft, Edgar Allan Poe, Asimov, Conan Doyle, Clive Barker e soprattutto lui, il Re, lo zio che con voce bonaria e pacifica ti mette una mano sulla spalla e dice: ‘Ho una storia da raccontarti. Mettiti comodo, ci vorrà un po’ di tempo, ma ti assicuro – ah se te lo assicuro – che ne varrà la pena. E non ti spaventare se ci sono mostri e cose che fanno paura, il mondo è così: un posto struggente, in cui accadono cose terribili e meravigliose. Cose che la gente non è neanche disposta a credere. Ma tu ci credi, vero? Tu ti fidi di me?’.

E io mi sono sempre fidato, sin dal primo momento. Perché lo zio Stephen è sempre stato uno di parola. Anzi, uno tanto generoso da aggiungere sempre qualcosa alla portata delle proprie promesse. Non mi ha mai voluto illudere: è che gli piace raccontare, gli piace da pazzi. E sa che a quelli come me piace ascoltare storie. Potrei passare tutto il mio tempo ad ascoltarle, se uno è bravo a raccontarle. E lui è sempre stato così bravo che, appena iniziava a muovere le labbra senza farlo – la scrittura è telepatia, vero Stephen? – il mondo intorno spariva, sostituito da Castle Rock, da Derry e da un sacco di persone, di cose, di mostri, di gente completamente fuori di testa, da ragazzini e ragazzine eccezionali e così normali, da donne e uomini che avrebbero dato la vita per rimanere fedeli alle cose in cui credevano, e che avrebbero dato anche una seconda vita pur di salvare la struggente bellezza del mondo, mentre l’orrore faceva di tutto per farsi largo. Cose incredibili, più vive della vita, che neanche pensavo potessero esistere. E, invece, il mio nuovo zio mi stava dicendo che esistevano eccome.

Così, rivedo me stesso – e mi vedo da fuori, di spalle – chino sulla copia di Christine, seduto in poltrona, nell’appartamento di via Mordacci, incapace di sollevare la testa dalle oltre seicento pagine del romanzo. Sino ai tredici anni mia madre temeva che non avrei mai letto, che i libri non mi avrebbero appassionato, e invece eccomi là, incollato a quel libro gigantesco, rapito, intento a leggere mentre la tv è accesa.

Sento il calore delle lenzuola che mi proteggono durante un’influenza invernale, la testa appoggiata sul cuscino messo in verticale contro la testiera del letto, intento a dare un voto a ciascuno dei racconti di A volte ritornano, con il desiderio di finirlo subito, per iniziare La metà oscura, La zona morta e Scheletri.

E ricordo la straordinaria impressione che mi fece la prefazione di quella raccolta di racconti, la prima di King, il senso di abbacinante verità che suscitò in me il passaggio in cui lo zio mi sussurra con cautela, cercando e trovando subito le parole giuste, come siamo fatti noi esseri umani, cos’è la paura, perché non possiamo esimerci dal rallentare quando incrociamo un incidente stradale, per fermarci a osservare: siamo contenti che il cadavere sull’asfalto non sia il nostro. La morte è la nostra ombra e non possiamo separarcene. Solo illuderci di tenerla a bada, governando la paura che, poco alla volta, mentre gli anni passano, si impossessa di noi: un giorno, sotto un lenzuolo simile a quello intravisto sul selciato, ci sarà il nostro cadavere. King, pronto ad ammaliarmi, mi stava avvertendo. Mi stava di nuovo posando una mano sulla spalla e, sorridendo, mi stava dicendo: ‘Vieni, andiamo. Avrai paura e sarà la cosa più ovvia e naturale che possa accadere. Senti? Tremo anche io’.

Quella è stata la prima volta, ma non so se dipenda da quella prefazione. Fatto sta che una delle cose che amo maggiormente dello zio sono le sue prefazioni e postfazioni.

Lo zio Stephen è una persona generosa, l’ho già detto, e sono innumerevoli le occasioni in cui spiega ai suoi fedelissimi lettori come sono nati i suoi romanzi e i suoi racconti. Ricordo perfettamente il senso di protezione nel leggere un’altra sua raccolta intitolata Tutto è fatidico. Accadde nell’estate del 2002, mentre facevo la stagione in fabbrica. Per una settimana fui dirottato a fare il turno di notte, allo scarico pomodori. O meglio, fui io a chiedere di lavorare al turno di notte. (Chissà, forse anche la mia passione per la notte è un elemento che mi ha spinto ad amarti così tanto, Stephen. Chi può dirlo). Ricordo che passavo gli intervalli tra l’arrivo di un trattore o di un camion e quello successivo, mi chiudevo nel gabbiotto degli addetti allo scarico a leggere i racconti della raccolta e non vedevo l’ora di arrivare alle pagine che li introducevano. Lo zio raccontava in poche righe cosa gli era passato per la testa quando li aveva scritti e ogni volta aveva la sensazione che facesse di tutto per mettermi a parte di un segreto: se sei capace di fare qualcosa, racconta agli altri come lo fai. Non si vive anche per questo? Per condividere quel che abbiamo imparato? E il rumore dei trattori e dei camion, l’odore di pomodori appena raccolti, frammisto a quello degli altri pestati e marci sul cemento, l’umidità della pianura immobile nella calura estiva, si espandeva sino al Maine, sino alla scrivania dello zio, il suo luogo di trasmissione preferito.

Ricordo anche gli anni in cui erano quasi riusciti a convincermi che valesse la pena lasciarlo. Insomma, devo confessare che per un po’ di tempo ho smesso di leggerlo, ma non di amarlo. Il desiderio è sempre stato così forte che gli ho attribuito poteri soprannaturali, che si manifestavano in maniera semplice ed eclatante: ogni volta che entravo in libreria e vedevo i suoi libri, provavo il desiderio incontenibile di comprarli. Di ricomprare quelli che già possedevo, di acquistare quelli che avevo rinunciato a leggere. E a un certo punto, quando sono rinsavito, l’ho fatto: li ho comprati tutti. E li ho cercati in prima edizione. Era un modo per chiedergli scusa.

Com’è accaduto che la passione è tornata a divorarmi? È stato semplice: non era cambiato lui, ero rinsavito io. Avevo riscoperto il piacere di lasciarsi trafiggere dal piacere, dal dolore e dall’unica cosa che ancora conta, oggi come quando avevo quattordici anni, sdraiato a letto, con gli occhi piantati a metà di Misery, o di Carrie, o di Cujo: volevo godere, guardare il mondo da quello spicchio di terra chiamato Maine, che diventava il mondo intero.

Ma lo zio ci tiene a non fare brutta figura e mi aveva lasciato due libri che potevano spiegarmi ancora meglio cosa accadesse quando mi invitava a casa sua. Si trattava di On writing e Danse Macabre, cioè il suo saggio sulla scrittura e il mestiere di scrittore e l’altro strepitoso saggio sull’horror contemporaneo. Là dentro c’erano le chiavi per accedere al suo laboratorio. E, come ogni volta, era sulla porta, la camicia un po’ stropicciata, il braccio rivolto verso l’interno, che diceva: ‘Vieni, ho un sacco di cose da mostrarti, se ti va’.

Ho letto quei due saggi sei o sette anni fa, poco prima di un trasloco da una città a un’altra. Stavo tornando a casa e lui era là per accompagnarmi. Anche se la sorpresa più grande era un’altra e si chiamava IT.

Posseggo la seconda edizione italiana del romanzo. Copertina cartonata, edizione cucita, pubblicata da Sperling e Kupfer nel 1987. Lo chiesi in regalo per il mio compleanno nel gennaio del 1988, ma non l’ho letto fino all’anno scorso. Ho sempre aspettato che venisse il momento giusto. E nell’estate del 2016 mi ci sono immerso. Quasi trent’anni dopo. All’improvviso sono tornato ai miei quattordici anni, sono diventato uno dei Perdenti e ho capito che avevo fatto bene ad aspettare, a resistere: IT è una galassia. Non è uno straordinario manuale di scrittura e psicopatologia della vita quotidiana come Misery; non è una radiografia della rivalità e del mimetismo violento come Cose preziose – letto di notte, a Torino, accompagnato dal rumore del Po –; non è uno schiaffo in faccia alla violenza e alla follia maschile come Notte buia, niente stelle. No, IT è il racconto più caloroso e struggente dello zio, quello in cui ti dice: ‘Ora che sei diventato grande, e vorresti fare di tutto per dimenticare quanto eri stupido e coraggioso; ora che sei pavido e ti senti intelligente, guarda bene: i tuoi mostri sono ancora tutti là. Torna indietro, diventa grande’. Puoi non amare alla follia un uomo che ti fa un regalo così?

Potrei raccontare della smania con cui corsi in giro per Parma, in pieno agosto, a cercare una copia di La storia di Lisey, appena dopo aver finito Duma Key, cioè il romanzo che ha fatto diventare le rane i miei animali guida. E di come ne trovai una copia da Feltrinelli, uscii, e tornai dopo un’ora per acquistarla e qualcuno era passato dieci minuti prima a comprarla. E di come feci il giro delle altre librerie, per sentirmi dire ogni volta che era appena passata un’altra persona a chiederlo, e sapevo che era la stessa che, più scaltra di me, aveva acquistato la copia che avevo lasciato da Feltrinelli, sicuro di poterla recuperare dopo poco.

Potrei raccontare della felicità di leggere Joyland in Romagna, a pochi passi da un parco giochi molto simile a quello del romanzo, o di aver voglia di abbracciare lo zio per la sontuosa intelligenza di Revival, con quel finale che ti porta ad aprire un video su YouTube, a rimanere senza parole, e a pensare che lo zio abbia davvero dei poteri soprannaturali. Potrei raccontare di quanto l’abbia maledetto l’estate in cui lessi Il miglio verde, acquistandolo in edicola a puntate, e capii perché la gente diventata pazza, quando aspettava i romanzi di Dickens a puntate: zio, quella fu crudeltà vera.

Potrei raccontare di tutti i luoghi e i momenti in cui ha cercato di dirmi qualcosa e c’è riuscito. Non so come fa, ma, in realtà, non lo voglio sapere. Sono uno di quelli che pensa che, quando sei molto innamorato di qualcuno, è inutile, anzi dannoso, provare a capire com’è successo. È molto meglio godersela e ringraziare il cielo che ti sia capitato.

A dirla tutta, però, a un certo punto, che tu lo voglia o meno, arrivi a capire perché eri o sei innamorato. E quello è il momento della verità: o crolla tutto, o si diventa inseparabili.

Io e lo zio Stephen siamo inseparabili.

E adesso, quando parlo dei suoi libri e la persona che ho di fronte solleva il sopracciglio con aria di compatimento, gli poso una mano sulla spalla, sorrido e penso a quanto voglio bene allo zio Stephen.

Mi basta questo.

Jacopo Masini

 

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