Jorge Volpi, l’autore di In cerca di Klingsor e di Non sarà la terra, l’aveva già scritto in un bellissimo saggio intitolato El espejismo de América latina (“Il miraggio dell’America latina”): «Siamo radicali: la letteratura latinoamericana non esiste più», aveva detto.  Ma adesso, sul suo blog, è tornato sullo stesso argomento, con un articolo composto da «più di cento aforismi, quasi tweets», in cui smonta, concettualmente e storicamente, l’idea attuale di America latina e di letteratura latinoamericana.  La prima, secondo Volpi, ormai esiste solo «nella misura in cui si organizzano congressi letterari, sociali, politici e artistici – mai scientifici – sull’America latina», oppure «si conserva solo nelle guide turistiche (e nella nostalgia occidentale). I suoi diversi paesi quasi non si conoscono tra loro e le loro società sono diventate sempre più aperte e plurali, più restie all’incasella­mento».

Parole sante. Che mirano al cuore della pigrizia di noi europei, perché, trattandosi di un continente fin troppo rigoglioso, dove fioriscono grandi contraddizioni e diversità, è più facile ricorrere ai luoghi comuni piuttosto che capirlo davvero, è più facile fare dell’esotismo e accomunare ciò che è diverso. E invece, tra il Río Bravo e Capo Horn, per migliaia e migliaia di chilometri, si estendono selve, deserti, montagne, vulcani, pianure sterminate, ma anche alcune delle più grandi conurbazioni e megalopoli del pianeta. Invece fra Tijuana e Ushuaia ogni regione ha una storia a sé e vi si parlano decine e decine di lingue, oltre allo spagnolo e al portoghese, per cui perfino la definizione di America latina diventa problematica.

E allora, la letteratura latinoamericana? Be’, risaliamo per un attimo all’idea ormai comunemente accettata delle letterature nazionali, con partico­la­rità uniche e irripetibili, proprie di ogni paese. Gratta gratta, si scopre che quelle letterature sono un’in­venzione ottocentesca, parte di quel processo di formazione degli stati nazionali che Benedict Anderson ha descritto in un libro intitolato Comunità immaginate, o che Hobsbawm ha definito «l’invenzione della tradizione». Prima di allora, infatti, nessuno aveva mai considerato la letteratura come un bene particolare, proprietà privata di uno o di vari paesi. C’era la letteratura, punto. O, con Goethe, la Weltliteratur. Fu per questo che i libri degli autori del boom, da García Márquez a Fuentes, da Cortázar a Vargas Llosa, all’inizio furono accolti dai critici locali come veri e propri schiaffoni: perché volgevano le spalle al nazionalismo ufficiale e cercavano, neppure intenzionalmente, di creare una letteratura per così dire bolivariana, continentale. Insomma, latinoamericana; e non messicana, peruviana, colombiana, e via di questo passo.

Era l’epoca in cui l’America latina, almeno quella America latina, esistette davvero: un periodo che Volpi fa andare più o meno dal 1959 al 1989, quando «risultava facile definirla: una regione dominata da dittatori, guerriglieri, calciatori, musica latinoamericana (da Gardel a Silvio Rodríguez) e dalla retorica del realismo magico». Già, il realismo magico: altro enorme abbaglio di noi europei e nordamericani. A teorizzarlo, e ad applicarlo in qualche suo romanzo, fu il solo Alejo Carpentier. Gli altri scrittori del boom non sapevano nemmeno cosa fosse. García Márquez, per esempio, non ne ha mai parlato, eppure quell’etichetta l’ha bollato a vita, e lui per anni ha tentato di liberarsene. Inutilmente: perché a noi, ansiosi di situare in un qualunque Altrove le nostre utopie non realizzate, piaceva di più l’immagine di un’America latina esotica, magica, tanto vicina alle origini da confondere mito e storia, l’immagine di un mondo selvaggio e innocente come il primo giorno della creazione. Così, abbiamo addomesticato l’alterità del Nuovo Continente e l’abbiamo trasformato in un mondo di inoffensivi sognatori a spasso tra prodigi, banani e mangrovie.

Negli aforismi, o tweets, numero 14 e 15, Volpi la mette così: «Il danno provocato dall’intronizzazione del realismo magico come paradigma unico fu enorme. 1°, perché diventò l’unico strumento per interpretare la realtà latinoamericana. 2°, perché oscurò l’immensa varietà immaginativa del boom e della letteratura latinoamericana in generale. Trasformato in strumento sociologico dalla critica europea e statunitense, il realismo magico convertì l’America latina in un parco a tema dell’assurdo. Un luogo dove accadevano le cose più insolite e terribili senza che nessuno si scomponesse. Il regno del conformismo».

Ma veniamo all’oggi. I successori della generazione del boom hanno giustamente deciso che in letteratura la loro tradizione è quella di tutto il mondo, che sono stufi (ancor più di Cortázar o di Vargas Llosa) di dover raccontare di banani e mangrovie e multinazionali cattive anche se vivono nello smog e nel traffico di Buenos Aires, di Città del Messico, di Madrid o di Parigi. Se vogliono, possono raccontare, senza complessi di colpa, della Germania dell’Ottocento (Neumann) o parlare di fisica quantistica o di genoma umano e di crollo dell’impero sovietico (Volpi), o raccontare la Cina (Santiago Gamboa) o Londra e l’Asia centrale (come Ignacio Padilla), ma anche esplorare ancora, di nuovo, i lati oscuri del proprio paese, come Santiago Roncagliolo o Karla Suárez o Juan Gabriel Vázquez. È una letteratura più nomade ed emigrante che mai, liberata da ogni costrizione nazionale o continentale. Questi autori, viaggiatori, cosmopoliti che vivono in diverse città del mondo, condividono (spesso) lingua e passato, ma la loro creazione non è omogenea, sorge da e avanza attraverso una frondosa geografia letteraria senza frontiere. Con qualche eccezione per gli autori di narconovelas, non si raggruppano in movimenti o tendenze e, con gran fastidio degli accademici, non si lasciano incasellare per generazioni. «La letteratura identitaria», scrive Volpi, «è in via di estinzione. Restano gli scrittori, e le loro opere. La tassonomia, passione critica per antonomasia, diventa impraticabile».

Certo, ci sarebbe la lingua, lo spagnolo, ad accomunarli, dando vita a quella che Carlos Fuentes ha chiamato la «letteratura della Mancha». Bellissima e suggestiva definizione, che tuttavia trascura i brasiliani ed è costretta a includere anche gli scrittori che scrivono in spagnolo ma sono nati in Spagna e non nel Nuovo Continente. Questa definizione, inoltre, non tiene conto del fatto che, più che di lingua spagnola, sarebbe più appropriato parlare di «lingue spagnole», vista la grande differenza delle diverse parlate regionali. Infine, ci sarebbe il problema che alcuni di questi autori, come Daniel Alarcón o Junot Díaz, scrivono addirittura in inglese.

Insomma, comunque la si rigiri, parlare oggi di «letteratura latinoamericana» è sempre più difficile. Sic stantibus rebus, io sarei perfino più radicale di Jorge Volpi. Se lui sostiene che questa letteratura non esiste più, io (non avendo nemmeno orticelli accademici da difendere) mi spingerei perfino ad affermare che non è mai esistita. Non era, infatti, in una pretesa tradizione latinoamericana che gli autori del boom affondavano esplicitamente le loro radici e la loro ispirazione, bensì in tutta la letteratura occidentale, se non in quella mondiale. Come qualunque altro scrittore italiano, francese, tedesco o inglese. Insomma, basta; finiamola con questa storia. La letteratura va dove la portano gli scrittori, i bravi scrittori. E se si è un bravo scrittore o una brava scrittrice, cosa importa, in fondo, essere nati a Lima, a Città del Guatemala, a Roma, a Londra o a Vimercate?

fine

Per gentile concessione di Bruno Arpaia che ha già pubblicato questo articolo sul Sole24ore nel 2011