Anno 1 | Numero 2 | Ottobre 1997

Ho fatto la posta a Kureishi e non me lo sono fatto scappare in questa fine estate 1997, a Mantova.

L’avevo visto solo in fotografia e sempre avevo sospettato fosse un gran bell’uomo.

Trovarmelo davanti in carne e ossa non ha fatto altro che confermare il mio sospetto.

Ancora una volta, con leggerezza, ha descritto, in prima persona la fine di un rapporto d’amore stressato e consumato dalla periferia di una Londra di villette monofamiliari. Kureishi mi sorprende. Dice di essere, oramai, un uomo di mezz’età e che grazie a questa ha guadagnato più determinazione, maggior chiarezza nella vita, artistica e no, ma ha perso vitalità (secondo lui, naturalmente) nel senso di: se il giovane sapesse; e se il vecchio potesse.

Kureishi mi sorprende.

È sempre “à la page”: nonostante abbia vissuto negli anni ottanta, ha mantenuto viva la capacità di cogliere la polaroid del momento storico da lui descritto. Non cerca di far rientrare la realtà del 1997 in un logoro schema descrittivo, affollato di fantasmi degli anni settanta e ottanta. Ad esempio in The black album tocca il tasto difficile dell’integralismo vissuto dai giovani emigrati, e proprio a Mantova alla domanda di una ragazza che chiede cosa lui ne pens1 dell’Islam, Kureishi spiega che dal suo punto di vista la religione è rimasta come unico elemento di aggregazione delle aree urbane inglesi abitate da emigrati pakistani. Purtroppo i giovani si attaccano fanaticamente al credo musulmano per combattere la solitudine urbana e per ritrovare in Inghilterra le radici della loro cultura. Nel sentire queste frasi mi rendo conto di come noi italiani possiamo solo recepire il messaggio e immaginarci una realtà così, ma non la vediamo quotidianamente, uscendo di casa per comprare il giornale.

A fare da interprete, seduta al fianco di Hanif Kureishi, una squisita versione italiana di Mary Poppins, una dolcissima donnina che traduce i pochi “fucked” di Kureishi con dei very polite: “dannato”.

Perché in Inghilterra c’è qualcuno che scrive quello che capita dentro gli ammassi di carne di cui siamo composti? Perché ancora con maestria e sensibilità coglie i pensieri delle persone e descrive perfettamente il momento in cui “Love” entra in “a blue time”? o riesce a fare un film sull’omosessualità (My beautiful laundrette) senza renderlo aggressivo come solo i film “gay” sanno esserlo. E in Italia, intanto noi, inseguiamo litri di sangue posticcio, miriadi di serial killer che ormai non ci fanno zip, mondi fasulli ma… pagati molto bene dagli editori.

Il budda delle periferie, l’esotico maestro di yoga di allievi inglesi che non hanno mai dovuto fare i conti con l’India lontana e i vincoli tradizionali sempre vicini, o con gli skinhead per cui sei un “paki di merda”, dicevo il budda è invecchiato bene, risponde a tutte le domande del pubblico: “Che film preferisci? Che libri leggi?”.

Non mi ricordo le risposte che ha dato, perché ero impegnata a gustarmi tutta la situazione: Hanif Kureishi materializzato davanti ai miei occhi: delle risposte non mi interessa nulla. A me è bastato che dicesse di tenere viva la fantasia, la capacità di immaginazione. Nutrire, davvero nel senso di dare cibo e spazio, SPAZIO alla propria immaginazione e fantasia.

Poi con calma e con un’espressione di estrema leggerezza come fosse un ventenne ha concluso dicendo che la mezz’età gli ha portato tutti i vantaggi tipici dell’essere maturo, ma non ha ancora capito quali siano.

Chiara Laudani

“Seduto lì, coi calzoni calati, mentre meditavo sugli avvenimenti della serata, ebbi una straordinaria rivelazione.”

I libri di Kureishi tradotti in italiano