Anno 1 | Numero 8 | Maggio 1998

Espenbaum

Espenbaum, dein Laub blickt weiß ins dunkel.
Meiner Mutter Haar ward nirnmer weiß.
Lowenzahn, so grün ist die Ukraine.
Meine blonde Mutter kam nicht heim.
Regenwolke, saumst du an den Brunnen?
Meine leise Mutter weint für alle.
Runder Stern, du schlingst die goldnene Schleife.
Meiner Mutter Herz wadr wund von Blei.
Eichne Tür, wer bob dich aus den Angeln?
Meine sanfte Mutter kann nicht kommen.

 

Tremolo

Tremolo, è bianca al buio la tua chioma.
Mamma non ebbe mai capelli bianchi.
Soffione, com’è verde l’Ucraina.
Mamma era bionda e a casa non tornò.
Nuvola scura, indugi sulla fonte?
Mamma piange per tutti sottovoce.
Stella rotonda, annodi il fiocco d’oro.
Mamma al cuore dal piombo fu ferita.
Porta di quercia, chi t’ha scardinata?
Mamma era dolce e non potrà tornare.

trad. di Giovanna Venditti

 

Nel 1948 Paul Celan, il più grande poeta emerso dalla tragedia della seconda guerra mondiale (Mittner), considerato uno dei più importanti rinnovatori della letteratura tedesca del dopoguerra e tra i primi, con Ingeborg Bachmann, Gottfried Benn e Bertolt Brecht, a sollevare l’esigenza di un impegno storico ed estetico della lirica tedesca, si trasferisce, ventottenne, a Parigi dove resta fino al 1970, anno della sua morte.

Pur vivendo dunque per quasi metà della sua vita in Francia continua a produrre opere in tedesco e a considerarsi uno scrittore tedesco, convinto che “solo nella madrelingua si può esprimere la verità, nella lingua straniera il poeta mente”. La lingua, come dice nel suo discorso del 1958 in occasione del premio letterario della città di Brema, è l’unica cosa che si è salvata dalla tragedia tedesca, si è salvata attraversando questa tragedia e sperimentando la propria impotenza e il proprio silenzio ed è tornata alla luce. E con questa lingua sopravvissuta che Celan scrive le sue poesie, per cercare di esprimere l’inesprimibile, di raccontare “l’irruzione dell’irrazionale nella storia”, di “strappare alla lingua della violenza quel che non le appartiene: la lingua” (Stiehler).

La poesia, dice ancora nello stesso discorso che sembra voler rispondere alla domanda del filosofo Theodor W. Adorno se sia ancora possibile una poesia dopo Auschwitz, è un “messaggio in una bottiglia”, lanciato nella speranza che arrivi da qualche parte dal poeta che, “ferito dalla realtà e cercandola, va con la sua esistenza verso la lingua”.

Anche per lui, come per Günther Anders, un altro scrittore tedesco esule a Parigi, questa lingua diventa l’unico pezzo di casa e di patria che resta al rifugiato, ciò che ancora lo lega al luogo cui apparteneva. La ragione per cui Celan non farà più ritorno al suo paese natale sta certo nel fatto che dopo la fine della seconda guerra mondiale questo paese non esiste più. Nel suo volontario esilio parigino gli sembra più facile, come riferisce dopo una visita al poeta nel 1968 lo scrittore rumeno Janosz Szasz, riuscire a elaborare la propria lingua poetica e cercare di ricreare e di stabilizzare la situazione della sua patria perduta. Questa patria non corrisponde tanto o non solo a una regione geografica, quella Bucovina ex provincia orientale dell’Impero Asburgico oggi inglobata nell’Ucraina e introvabile sulle cartine, quanto a una regione culturale dove, a opera soprattutto di autori ebrei come lo stesso Celan, si era sviluppata nel corso di circa due secoli, una cultura e una letteratura di lingua tedesca particolarissima, legata alla tradizione e aperta nello stesso tempo agli influssi provenienti dall’Europa occidentale come pure quelli dell’ambiente circostante rumeno ed ebraico, influssi che si riflettono più che nella lingua nelle forme e nei contenuti simbolici e metaforici. Così ad esempio nella poesia Vicino alle fosse di Celan del 1944 troviamo la tematica della legittimità dell’uso della lingua tedesca da parte del poeta espressa attraverso una forma che si rifà alla canzone popolare rumena e riprende l’immagine del dio che se ne va di colle in colle appoggiato al bastone di Aronne “carico di gemme”, simbolo del popolo ebraico.

Questa tradizione letteraria tedesca della Bucovina, che rappresenta uno dei più profondi e durevoli esempi di simbiosi ebraico-tedesca e di cui l’opera di Celan è nello stesso tempo un prodotto e il suo coronamento, viene definitivamente interrotta dagli eventi della seconda guerra mondiale e dopo di allora sembra di sentire aleggiare ovunque nella regione l’eco della Fuga sulla morte, la poesia più famosa di Celan, scritta nel 1944, in cui si intrecciano, in versi lunghi che riprendono da strofa a strofa immagini e proposizioni con un procedimento che ricorda una partitura musicale, il motivo del carnefice e quello delle sue vittime. La poesia costituisce un “momento commemorativo per le vittime” e si chiude con due versi brevi che sembrano un improvviso nodo in gola dopo l’ampio e apparentemente monotono fluire dei versi precedenti. La Bucovina, che nel 1958 Celan aveva definito “una regione in cui vivevano uomini e libri”, due anni dopo gli appare un non-luogo, un’utopia. E utopia è anche il termine che il critico Hans Mayer usa nel 1983 per interrogarsi sull’ideale della simbiosi ebraico-tedesca. Con il suo suicidio nella Senna Celan sembra sancire in modo definitivo l’inconciliabilità tra lo spirito ebraico e la lingua tedesca già espressa nella chiusa di h1ga sulla morte. Un altro scrittore ebreo tedesco esule a Parigi, Alfred Döblin, aveva detto di non poter rinunciare neanche in esilio alla lingua tedesca, che per lui separarsene era “peggio che strapparsi la pelle di dosso, sventrarsi, commettere suicidio”. Nel 1970 neanche la lingua, che nelle sue ultime opere si è fatta sempre più ermetica, basta più come rifugio a Celan che nel 1948, subito dopo il suo arrivo a Parigi, aveva manifestato al poeta Alfred Margul-Sperber, suo conterraneo, la sua convinzione che solo lontano da casa avrebbe continuato a scrivere poesie. Lo stesso Margul-Sperber in una lettera a un editore dopo aver definito Celan “il poeta che ho aspettato per mezza generazione dalla nostra regione” dichiara di vedere nelle sue poesie “l’unico pendant lirico all’opera di Kafka”. E come per Kafka (Baioni), anche per Celan ci sembrano scritte le parole con cui Kierkegaard definisce l’essenza di un poeta: “Un uomo infelice che ospita nel cuore un’angoscia profonda, ma le cui labbra sono così formate che i gemiti e le grida che le trapassano vengono trasformate in musica incantevole”.

Giovanna Venditti

 

Pseudonimo del poeta di lingua tedesca Paul Antschel (Cernăuti, Bucovina, 1920 – Parigi 1970). I genitori, di madrelingua tedesca, morirono in campo di concentramento nazista, ed è questa la prima esperienza, legata a quella della morte di milioni di ebrei, di cui C. intese farsi testimone. Dal 1947 a Vienna; poco dopo si stabilì a Parigi, assumendo la cittadinanza francese; studioso di germanistica e glottologia, insegnò all’École normale supérieure. Morì suicida. Riassumendo in sé le suggestioni di varie tradizioni poetiche, sin dall’inizio (Der Sand aus den Urnen, 1948) ha delineato la sua personalità, spiccata nel senso d’un simbolismo talora ermetico talora surrealistico. Alla prima raccolta fecero seguito Mohn und Gedächtnis (1952), Von Schwelle zu schwelle (1955), Sprachgitter (1959), Die Niemandsrose (1963), Atemwende (1967), Fadensonnen (1968), Lichtzwang (1970), Schneepart (post., 1971), Zeitgehöft (post., 1976).
Fonte: treccani.it

 

In libreria

Paul Celan
Poesie
Testo tedesco a fronte

Mondadori 1997
Collana: I Meridiani
Traduzione di Giuseppe Bevilacqua

1640 p., cartonato con sovraccoperta
€ 60,00

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