La scelta di un libro è spesso condizionata dal consiglio di un conoscente, di un amico/a, di un/a collega o di uno sconosciuto/a incrociato per caso in un viaggio; può capitare però (molto meno frequentemente) che sia un personaggio famoso a consigliartelo.

Così è stato con L’arte di scomparire di Pierre Zaoui; non sarei mai arrivato a questo libro se, in occasione di un pranzo, uno degli attori italiani più conosciuti non avesse nominato questo titolo, consigliandolo insieme ad un teatro contemporaneo londinese; due consigli che ho ascoltato,  mi sono memorizzato e che mi hanno portato poi spesso a ritrovarmi allo Young Vic di Londra a leggere questo libro in compagnia di una buona birra, circondato da centinaia di persone a me sconosciute; in quei momenti stavo vivendo quella che è la concezione di “discrezione” secondo Baudelaire di cui il libro parla nel capitolo finale e di cui scriveró ancora più avanti: ero in una città smisurata, nel completo anonimato e circondato da una folla di persone.

Non lo nascondo, è un libro denso e impegnativo, per i concetti filosofici espressi e le tesi argomentate; al centro della ricerca della discrezione c’è la gioia del “farsi piccoli”, di cedere il passo e la parola in favore di altri, per concedere e non privarli della loro occasione.

Zaoui scrive di modestia, di moderazione fino ad arrivare al silenzio che nulla ha che fare con l’omertà; che vi sentiate o meno discreti il libro tocca e mette in discussione le vostre convinzioni con un viaggio alla ricerca del significato profondo della discrezione attraverso i pensieri di filosofi greci, latini, contemporanei, di Santi cristiani e di scrittori (all’inizio di ognuno dei cinque capitoli che compongono il libro è citata una frase di Franz Kafka).

È un libro impegnativo e lo è ancora di più oggi, perché ci parla della scelta volontaria di scomparire in un mondo in cui a farla da padrone sono concetti come “massima visibilità”, “ostentazione”, “immagine”, “apparenza”, “spettacolo” e in cui ci viene richiesto di essere “sempre connessi” e “sempre presenti”.

Oggi serve sforzo e desiderio per essere discreti e riuscire a scomparire.

Mi piace pensare che quell’attore con cui ho pranzato, tanto famoso da far scendere da un tram in corsa una persona che voleva un suo autografo e un selfie, stesse leggendo e abbia consigliato questo libro anche per questo: è proprio nella società contemporanea della presenza ostentata che c’è un estremo bisogno di farsi discreti e scomparire.

È una discrezione che poco o nulla ha a che vedere con la solitudine; un concetto chiarito con l’esempio di uno dei paragrafi finali del libro, quello della discrezione baudelairiana di cui ho fatto già un cenno sopra.

Anche a voi sarà capitato di visitare qualche megalopoli come Londra, Parigi, Tokyo, Shangai, Los Angeles, NYC, Roma, Milano, Città del Messico, San Paolo, etc. etc. ed avere avuto quella la sensazione di sentirsi nessuno in mezzo a tanti?

Sì, quella sensazione opposta a quella che si prova nel proprio paese, quello dove magari si è anche nati o quello dove si è vissuto per anni insieme a qualche migliaia, decine di migliaia di persone e in cui alla fine è proprio vero che ci si conosce tutti.

La città smisurata contro le piccole cittadine, i “paesotti”.

Per Baudelaire la questione della discrezione infatti non può porsi quando si è sulla vetta di  una montagna o su un’isola disabitata o, con le sue parole, quando si è in “un deserto: in un deserto si è semplicemente soli!”

“Essere fuori di casa e ciò non pertanto sentirsi in casa propria; veder la gente, essere in mezzo alla gente e restare nascosto alla gente” 

Cinque sono gli elementi che secondo Baudelaire caratterizzano la discrezione e di questi i miei preferiti sono il concetto della città smisurata, la passione per l’anonimato e l’amore per le folle che popolano queste città smisurate che altro non sono che una immensa sorgente di energia, imprevisti, vitalità.

“Amare la città significa essere davvero moderni, resistere alla nostalgia bucolica che alimenta gli animi più reazionari; ma amare la città significa anche legittimare la loro mostruosità, la loro formidabile capacitià di rendere gli uomini degli scarti tagliati fuori da ogni legame di solidarietà, filiazione o alleanza.
Amare le folle, le moltituddini, vuol dire comprendere sin nella propria più intima percezione, l’irresistibile divenire democratico delle nostre società moderne, e vuol dire anche odialrlo, soffrirne e non potersi accettare nella folla che come poeta mascherato, solitario, mai riconciliato con nessuno”.
E si scoprirà che “il discreto opera per il bene degli altri per non darla vinta all’ego o al fatalismo/nichilismo.”

Alessio Cuccu