Un muro bianco un piccolo niente, fotografie sfuocate, equivoci e casualità. Frasi non finite. Sguardi dalle fessure, il retro di un arazzo, dettagli ingigantiti. Scrittori che diventano personaggi. Finzioni che si accaparrano la realtà. Frammenti senza tutto. Treni che deragliano per causa di un sassolino, battiti d’ali capaci di provocare uno tsunami. Fallimenti portati a termine con dignità. Sorrisi ironici. Inquietudini rassegnate.

Se si vuole ricercare un’eredità di Antonio Tabucchi nel panorama contemporaneo di autori, certo bisogna procedere in modo incongruo, come amava fare lui. D’altronde non si può sempre e soltanto guardare a lasciti che vengono da oltreoceano, dall’estero anglofono, quando si parla di scritture in lingua italiana.  La nostra letteratura, per essere tale, ha bisogno di trovare anche nella propria tradizione il seme generatore, un percorso che la continua.

Se Antonio Tabucchi non ha mai insegnato a qualcuno ufficialmente a scrivere, e non ha neppure mai guardato alla “scuola” di scrittura con interesse esplicito, anzi più con la preoccupazione di chi non crede che la letteratura possa essere ricondotta a questione di “bottega”, è vero che il nostro si è dato con generosità a chi si accostava a lui e lo riconosceva “maestro”, a chi si sentiva vicino alla sua opera  (prima spesso come lettore, scopritore dei suoi mondi) e voglioso di prendere le parole in mano per mettersi con quella in continuità. E non si è negato per consigliare, o mostrare una strada, talvolta essendo lui stesso a fare il primo passo verso un autore che aveva letto e ritenuto meritevole, come avvenne con Andrea Bajani, per esempio, allorché Tabucchi lesse il suo Se consideri le colpe (Einaudi), o con Romana Petri di cui lo scrittore toscano apprezzerà e incoraggerà l’esordio narrativo, la musicalità di scrittura.

In una conversazione con Luca Cherici sullo scrivere, confluita nel volumetto Dietro l’Arazzo edito da Giulio Perrone, è Tabucchi stesso a escludere dalla sua visione che la letteratura possa essere “indotta” a crescere secondo un programma, che questa possa nascere “in serra”:

«Vedi prima abbiamo parlato delle erbe selvatiche citando Pessoa, ecco la letteratura è un’erba selvatica, e un’erba selvatica non la puoi coltivare in serra. Se tu la programmi troppo, se gli dai quel tipo di temperatura, quel tipo di umidità come la dai a un fiore di serra, diventa appunto un fiore di serra. Ciò non significa che sia artificiale, ma è un’altra cosa. La letteratura ha una sua vita selvatica assolutamente indomita da questo punto di vista. Naturalmente, tu puoi aiutarla a crescere, la accompagni, ci metti uno stecco accanto perché ci si arrampichi sopra, ecco, gli fai da supporto. Ma non è che puoi dire: io a questo tipo di erba gli faccio fare questo tipo di fiore, perché poi te ne fa un altro».

Così affermando, il nostro Antonio si definisce da solo come esempio non clonabile, non riproducibile. E come antitesi del maestro di scrittura.
Tuttavia, è con certezza approdata in molta ottima produzione letteraria odierna la sua visione e la sua eredità. Come e dove è stato possibile riconoscerla è oggetto di questo articolo, ed è fondamentalmente, credo, questione di sguardo e di tono. Negli autori che di seguito nominerò come capaci di raccogliere il lascito di Tabucchi, la vicinanza al nostro non è da ricercarsi nella radice culturale, nel substrato formativo, se pure questo sia indubbiamente sovrapponibile in larga parte con quello in cui si è specializzato l’autore toscano, in primis l’opera di Fernando Pessoa. Per quanto egli sia stato un autore colto e ricercato, non ha mai usato la sua cultura in modo “pesante”; non è entrata mai nella sua opera per farne sfoggio. È stato sempre chiaro, leggendolo, quanto questa conoscenza fosse decantata in una capacità di approfondire il lato umano del personaggio, o di ricercare filosoficamente intorno a esso. E questo è vero per il venditore di oroscopi, il baleniere delle Azzorre, Pereira, un ragazzo sconosciuto ucciso in un conflitto a fuoco, o il Pessoa di Requiem e degli Ultimi tre giorni.

Molti autori contemporanei, tutti accomunati dall’aver conosciuto Tabucchi, aver con lui collaborato, o mandato in lettura proprie opere, ricevendone considerazione e apprezzamento, sono stati capaci di centrare la lunghezza d’onda del loro mentore nella scrittura, di sintonizzare il loro occhio interiore su determinate visioni, di fissare un sentimento con ritmi e toni consoni a quelli usati da Antonio Tabucchi stesso, pur mantenendo personalità e originalità.

Cito in primis Paolo Di Paolo, uno dei giovani più vicini in tempi recenti al maestro, prendendo a esempio i suoi romanzi e il recente volume fotografico scritto a due mani con Michela Monferrini, quel Cercando Tabucchi (Postcart) che ripercorre in modo nostalgico e non organizzato gli scenari letterari tipici dello scrittore in Portogallo, scegliendo di avvicinarsi a loro con modalità altrettanto casuali e non organizzate di quelle da lui spesso usate. È proprio nella scelta di lasciarsi sorprendere o trovare, piuttosto che cercare veramente, di permettere ai morti, ai vivi e alle finzioni letterarie di coabitare nello spazio reale tracciato dall’itinerario di viaggio, che affiora la scelta di entrambi gli autori di carpire appieno l’eredità tabucchiana. “Questo viaggio in Portogallo inizia a Praga”, dichiara la Monferrini nel suo incipit. È stata sorpresa sul Ponte Carlo dalla ballata “Rosamunde”, colonna sonora del “Tristano Muore”, e questa colonna sonora ha ispirato lei e Di Paolo a mettersi in viaggio nel Portogallo di Tabucchi. In questo incipit c’è già il tono di sottofondo perfetto per fare incursione  nei luoghi del nostro, e lo sguardo altrettanto perfetto lo si apprezza nella fotografia del volume, così sfuocata e un poco decentrata, come lo è tanta a cui i nostro ci ha abituato nei suoi racconti, a partire da quella foto ritrovata in tasca al ragazzo morto ne Il filo dell’orizzonte, che sarà l’inizio di una indagine non già di successo, ma volutamente fallita.

Anche in Mandami tanta vita (Feltrinelli) Paolo Di Paolo – incoraggiato da Tabucchi stesso a dare un seguito all’idea di una novella che ha protagonista Piero Gobetti – parte da due fotografie per tirare le fila degli accadimenti. La capacità di dare cifra intimistica a un personaggio della storia, è anche questa eredità tangibile del maestro. Insegnamento che permetterà poi all’erede di fare il passo successivo, e in un gioco di cornici concentriche, mettere Antonio Tabucchi al centro della propria storia,  mescolando la sua esistenza reale con la dignità letteraria che lo trasforma in personaggio. È il caso del gioco narrativo inventato da Maria Cristina Mannocchi ne La trama dell’invisibile, (Ensemble). La professoressa Mannocchi, partendo dall’organizzazione di una gita in Portogallo con una scolaresca,  vuole coinvolgere l’autore ad un incontro con gli studenti. Tabucchi accetta, e da lì comincia uno scambio, un viaggio nel viaggio, un rapporto biunivoco tra la vita vera e la vita letteraria, tra la vita interiore dell’autore e quella in divenire dei giovani che a lui si accostano. La capacità dell’insegnante di capire in modo profondo la corrispondenza tra processo creativo e formativo, tra invenzione e la realtà, tra casualità e destino, dilata lo spazio del viaggio e quello dell’incontro fino a permetterle di calarsi nei panni e nella biografia dello scrittore.

Altro esempio lo troviamo in Promenade di Alfonso Diego Casella, edito da Vittoria Iguazu, e in particolare dal Professor Riccardo Greco, figlio di Lorenzo, entrambi legati da profonda vicinanza e amicizia all’autore toscano. Riccardo, in veste di alunno ed erede della cattedra di Letteratura Portoghese a Siena, di autore e di editore, da sempre vicino a Tabucchi (è edito da lui anche quel Rua da Saudade 22 che raccoglie interviste con persone vicine ad Antonio Tabucchi  nel lavoro e nella vita all’indomani della sua morte, ma anche la novella Isabella e l’Ombra dedicata da Tabucchi stesso alla pittrice Isabella Staino) pubblica la prova di Casella. Questa non è quella di esordio dell’autore, ma una che definirei di atmosfera e di ispirazione tabucchiana laddove Casella costruisce attraverso le pagine di scrittori diversissimi per epoca, provenienza, nazionalità e attraverso opere musicali e suggestioni dei luoghi della loro origine, un itinerario nella città di Siena. Casella racconta proprio in Rua da Saudade di aver incontrato Tabucchi in quella città cercando di dargli in lettura un manoscritto e  suscitando inizialmente il di lui disappunto. Ma di averne poi ricevuto inaspettato un riscontro e un incoraggiamento a proseguire sulla strada della scrittura.

Torno adesso ad Andrea Bajani – che in un’intervista sulla scrittura dichiara di aver messo a frutto in letteratura più gli incontri in carne con gli autori che non le mere influenze letterarie, e parla appunto del suo rapporto con Antonio Tabucchi – per ripartire dall’assunto principale di questo post.

Tutto ciò che è eredità dello scrittore toscano si trasforma nella capacità di percepire e restituire attraverso la parola letteraria un’ottica, un sentire, uno  sguardo obliquo che  scolpisce attraverso  la “conoscenza” per liberare l’essenza, il sentimento. Ma è capace allo stesso tempo di dare “vita letteraria” a persone che sono vissute producendo letteratura esse stesse, non tanto inventando attraverso la fiction un alter-ego, più dando un prosieguo alla loro  vita non più corporea in una dimensione di mezzo.

In Mi riconosci (Feltrinelli), lettera dolente di Bajani a Tabucchi che inizia a dipanarsi con l’immagine del funerale dello scrittore a Lisbona, si fa tangibile la malinconia, il desiderio di riavere indietro il maestro, il mentore, la persona Tabucchi.

A questa mancanza, a questo bisogno di confronto con il Tabucchi ora burbero ora gioviale, sempre sincero e libero pensatore,  fortemente critico oppure entusiasta, impegnato ai fornelli o nella ricerca di frasi di autori, di spunti culturali, ci riporta anche Paolo Di Paolo nell’introduzione al viaggio di Cercando Tabucchi, dove cita le parole di una delle ultime mail ricevute dallo scrittore:

“Essere scrittore non vuol dire solo maneggiare le parole. Significa stare attenti soprattutto alla realtà circostante, alle persone, agli altri  (…) Una volta alla settimana chiuditi in camera tua, stacca il telefono e mettiti a fissare il muro per un pomeriggio. Senza fare nient’altro che fissare il muro. È un’ottima scuola di scrittura, io lo faccio ancora oggi alla mia età…”

Oggi, coloro che hanno accettato questa idea di scuola di scrittura e di Antonio Tabucchi hanno accettato l’eredità, credo di poter dire sappiano cosa si proietta su quel muro bianco, da fissare in pomeriggi oziosi. A me l’idea di quell’ozio ha riportato alla mente uno dei racconti de Il gioco del Rovescio dal titolo I pomeriggi del Sabato, che ho molto amato.

Scrivere, è forse prima in quel rinchiudersi nel nostro intimo, nelle proiezioni che vediamo sul muro, e che sono tutte interiori: possiedono il sentimento che si genera dalla realtà.

In quel sentimento Tabucchi è per tutti coloro che lo hanno amato più vivo e vivido che mai, in molte dimensioni che si intersecano; tra noi, i fantasmi che riusciamo ad acchiappare e la realtà che si sfilaccia intorno. Come in una fotografia non proprio a fuoco.

Anna Bertini

 

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La pietà del cineocchio (Pier Vittorio Tondelli)
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Definire l’indefinibile: piccola riflessione sul romanzo grafico (Graphic Novel)
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