Ci sono dei libri diversi da tutti gli altri libri. E a volte per fortuna ci capita ancora di poterli leggere.
Sono libri sfuggenti perché appaiono e scompaiono continuamente, portati innanzi da gruppi di lettori più o meno numerosi che nel tempo li fanno riemergere all’attenzione di alcuni altri lettori.
Eppure alla fine questi libri tornano ad inabissarsi, perché hanno tempo e qualità singolari che sembrano non corrispondere mai  ad un numero di lettori tale che li consacri ad uno status permanente nelle librerie, nelle biblioteche, nei cataloghi degli editori.
Di tutti i libri del genere che mi vengono in mente posso solo dire che non me ne viene in mente nessuno che non sia più bello della quasi totalità dei libri che solitamente vediamo primeggiare nelle classifiche di vendita. A mio avviso quindi diventeranno, e in qualche modo e da qualche parte già lo sono, anche dei classici. Ci vorrà più tempo, ci vorrà pazienza, più dei tempi andati, e forse non saranno i classici che siamo abituati a considerare ora come classici, perché il loro bacino di lettori non sarà mai  totale e omnicomprensivo, semplicemente perché sono libri troppo belli, ambiziosi e imperfetti per accasarsi in ognuno di noi.
Naturalmente questo è quello che penso io, e non una legge universale.
Dal nostro limitato punto di lettura, nel nostro paese, possiamo vedere alcuni titoli del genere: Dhalgren di Delany, Gilles ragazzo capra di Barth, Locus Solus di Roussel, Noi di Zamjatin, Con i cavalli in Moravia di Vaculik e via dicendo. Tutti libri con storie di lettura diverse, in patria e qui da noi.
In lingua italiana, per una volta, possiamo gareggiare tranquillamente nell’ elencazione dei libri che dovrebbero essere stati letti da un numero enorme di lettori e invece non lo sono ancora e forse mai lo saranno:  Il quinto Evangelio di Pomilio, Passavamo sulla terra leggeri di Atzeni, Davide di Coccioli ad esempio e senza farvi perdere troppo la pazienza con lunghi elenchi, fino ad arrivare al libro di cui vorrei scrivere ora.

Il libro di cui vorrei scrivere e di cui naturalmente vi consiglio la lettura, perché alla fine della lettura sarete diversi quel tanto che basterà per sentirvi meglio, ha come titolo Lo stagno di fuoco.
Come tutti i libri di cui accennavo poc’anzi, per avere la possibilità di leggerlo bisogna che accadano un po’ di cose.
A me è accaduto di leggerlo per una serie di sfortunati eventi, come al principio può essere quello di vagare, una decina di anni fa, per una libreria, con il senso di nausea che ormai mi attanaglia quando sono circondato da troppa carta inutile al primo sguardo e dalla pessima voce alla prima sfogliata. Sarà capitato anche a voi, immagino.
Poi lo sguardo vi cade su un libro (di solito sta in basso e nascosto, o di lato dimenticato, fate voi) e leggete il titolo sulla copertina. Il titolo vi fa venire in mente cose infernali, e sulle cose infernali, visto che siete essere umani, siete sempre ben disposti, fino a prova contraria. La prova contraria stavolta è che quel libro, dalla copertina fantasy, reca la dicitura Il romanzo storico sugli ultimi giorni dell’umanità, al che lo prendete in mano. In breve vedete  che è un libro illustrato, e la cosa di per sé è inusuale per un romanzo italiano, e in più vi accorgete che parla dell’Apocalisse e di quello che succede ad alcuni umani dopo di essa. Al che vi incazzate sul serio a pensare a cosa diavolo c’entri allora quello storico (storico?) nella dicitura sotto il titolo. Quindi sfogliate e per fortuna, leggendo quello che scrive l’autore e non l’editore, capite subito che un romanzo che inizia in una locanda e che parla degli ultimi giorni dell’umanità e di una discesa agli inferi di un gruppo di persone tra cui il protagonista è Joe Gould è un romanzo da leggere. Certo, nel mio caso, è contato molto che io sapessi già chi fosse Joe Gould. Joe Gould infatti è una persona realmente esistita, che è vissuta a New York tra gli anni ’20 e ’50  e resa famosa da una articolo di giornale che ne descriveva le gesta. Joe Gould era un tipo strano, senza fissa dimora,  che sosteneva di aver compreso la lingua dei gabbiani (avendo tradotto e scritto poesie in quella lingua) e di stare approntando un libro dal titolo Storia orale del mondo, traendo la sua scrittura dalle conversazioni che ogni giorno ascoltava e carpiva nel suo vagare in un mondo evidentemente visto con occhi diversi dal nostro. Hanno fatto anche un film su Joe Gould, tratto da un libro su Joe Gould, ma lasciate perdere che vi rovinate la magia che appena si è affacciata.
A questo punto, qualunque cosa voi pensiate di Joe Gould e del rispecchiamento dell’autore in un simile personaggio, comunque, per quanto mi riguarda, siete dentro la storia del libro.
Lo stagno di fuoco di Daniele Nadir, chiunque sia lo scrittore Daniele Nadir, è un libro importante e ambizioso che, avrete capito, si misura immediatamente con storie piuttosto importanti che penso vi siano balzate in mente solo per i brevi accenni che ho fatto alla trama e all’ambientazione. È un romanzo che si misura senza paura con la superficie mitica dell’uomo, usando una scrittura debordante ma comunque sempre narrativa, nel senso di una scrittura che tiene sempre al centro gli eventi: vissuti, ricordati e facenti parte  della cultura a noi più conosciuta e vicina, perlomeno come immaginario.
Solo tenere assieme quest’immaginario è un’impresa titanica perché, diciamolo chiaramente, il rischio di finire a scrivere un romanzo di bruttezza esemplare è altissimo.
Invece Daniele Nadir saccheggia ogni storia, le prende letteralmente da ogni dove, le rielabora e le incastona in un mosaico necessariamente apocalittico. Per capirci, siamo dalle parti di Neil Gaiman, quello fenomenale di Sandman per intenderci, se non altro per la capacità appunto di ricreare una mitologia nella storia, una mitologia che mischia di tutto e questo tutto ne permette una nuova rinascita. Come effettivamente ci si aspetterebbe da una narrazione dopo Apocalisse.
Quello che inoltre merita attenzione è che per saccheggiare e ricreare storie bisogna essere bravi, bisogna avere una storia propria da raccontare e bisogna avere la capacità di farlo con uno stile e una scrittura che siano credibili e personali quanto basta per tirare fuori la voce dell’autore e dare spazio alle voci del romanzo.
Se pensate poi di criticare un romanzo del genere perché quasi nulla di quello che ci troverete dentro è originale sveliamo un segreto: nulla è originale, tutto è già stato scritto e i confini sono sempre in tre parole da migliaia di anni, l’uomo, l’universo e Dio. L’originalità della storia non sta nella materia che si prende, sta nella combinazione che ricrea una nuova storia, e in questo Daniele Nadir è eccezionale.
Come vedete quindi da una serie di errori e nausee c’è sempre la possibilità, se un libro lo sfogliate e vedete un po’ di leggere quello che l’autore ha scritto, che vi si apra un mondo inaspettato e quasi miracoloso. Al che non resta che farsi portare dalla lettura.
Di romanzi italiani scritti così bene, con l’ambizione di raccontare storie nella Storia forse più grande che ci possa essere, legati ad una sensibilità che è tutta della nostra lingua ma in cui potrebbe rispecchiarsi qualsiasi lettore che abbia voglia di affrontare un viaggio faticoso e vertiginoso non se ne trovano tanti,  forse nessuno.
Questo non è un libro fantasy, non è nemmeno un libro di genere, è solamente un grande e maestoso romanzo di Epos e Mythos (esagero, ma forse no), declinato con gli strumenti narrativi della contemporaneità e una sensibilità onnivora per il piacere del racconto.
Le illustrazioni presenti nel libro non sono lì per caso, sono molto belle, evocative nella loro durezza di tratto, e si fondono nella lettura in maniera equilibrata e precisa, rendendo la storia migliore, perché il segno delle immagini si compiace di essere parte e contrappunto della storia narrata con il segno delle lettere in ordinata serie.
Dire di più su questo libro sarebbe peccato, svelare i numerosissimi riferimenti e le citazioni di altro anche. La storia non vi resta che godervela nel viaggio lungo della discesa.

Posso dire però che l’altro motivo per cui non ho voglia di raccontarvi di più è che mi è venuta voglia di rileggere questo libro, solo per averne accennato qui, e dato che la vita, a differenza dei romanzi, non permette riletture del tempo, ho una certa fretta. Sono atteso da un’altra personale apocalisse e vi lascio, ricordandovi che, come dice Lars Von Trier in The Kingdom, esistono sempre e solo due cose: il Bene e il Male.

Simone Battig