Anno 1 | Numero 3 | Novembre 1997

“A chi mi avesse sorpreso mentre sedevo inerte a rimuginare le mie cose, senza espressione, fisso, cercando nella tranquillità della stasi l’energia necessaria a rifarmi, avrei detto volentieri: sì, sono proprio io, il ragazzo mucca.”

 

Qualcuno (forse Proust) ha detto che scrivere – lo scrivere che fa letteratura – è “inventare una lingua nella propria lingua”. Se è così, l’ultimo Serra de Il ragazzo mucca (Feltrinelli / I Narratori, pp. 217, L. 25.000) non è propriamente uno scrittore. Nel senso che la lingua in cui egli ci narra questo romanzo breve è, puro e semplice, l’italiano. Ma che piacere leggere in un così bell’idioma, dalla sintassi articolata e solida, eppure fluente, e dal lessico nitido e ricercato ma mai astruso – leggere, e quasi ascoltare uno che “parla come un libro stampato”. E maggior pregio si deve al fatto che Michele Serra scelga questo stile, tra i molti che ha dato prova di padroneggiare, per l’urgenza dei contenuti che egli desidera qui comunicarci. Comunicare davvero, o almeno il più possibile – piuttosto che giocar d’effetto.

Probabilmente è un frutto dell’età (l’alba dei quaranta) e della formazione culturale, parametri che accomunano Antonio Lanteri, il protagonista-(ex)ragazzo-mucca, all’autore stesso (e ad altre conoscenze, non a caso citate o nascoste nell’intreccio: De Gregori e Nanni Moretti), ma l’incombente difficoltà di creare un circuito di reale incontro fra persone reali è proprio ciò che innesca la strana sindrome di Antonio, e con essa la vivace trama del racconto.

Dopo l’ennesimo attraversamento del pur concretissimo Nulla televisivo, dal quale dinanzi a milioni di cittadini-spettatori ha dichiarato che “la gente fa schifo”, il giovane direttore del più importante quotidiano progressista del Paese (autobiografismo dichiarato, quindi) “scoppia”, pianta la redazione e ripara presso la vecchia casa dei genitori in collina, dove lo troviamo a “ruminare” faticosamente cibo e pensieri. Lassù, sostenuto “a rotazione” dagli affetti veri (la moglie Dorotea e la figlia Maria dai rispettivi e diversi equilibri, la madre acuta e rapida, il quieto padre professore, il ricordo dello zio Siro, l’idolo tutelare Otorongo) e come immerso in un’aura di speciale condiscendenza, per la quale perfino la visita della più importuna giornalista “d’assalto” assume una valenza favorevole – lassù, Antonio si smonta un po’ alla volta, e via via si ricostituisce.

Il che dà modo a Serra di sciogliere, almeno in parte, più di un nodo della vicenda sua e del più recente trentennio italiano: l’improvvisa maturità (“i figli, un attimo fa, eravamo noi”) che ci fa consapevoli dell’identità umana con i nostri genitori; la sincera “sbornia” ideologica di un’epoca nella quale, per la prima volta, i giovani avevano “tempo per pensare, tempo per parlare”; il giornalismo, ovviamente, e il linguaggio; ovviamente, l’utopia comunista e le connesse disillusioni (“il mondo faceva clang chi poteva immaginare che presto avrebbe fatto bip?”); la naturalezza della fisicità; la cultura e il potere; la separazione e la fine. Tutto, condotto alla luce dell’intelligenza e della cortese ironia che fanno dell’autore, a detta dei suoi stessi coetanei, “uno dei migliori cervelli di questa generazione”, e impreziosito da evocazioni intertestuali appena percettibili, da Pennac a Hesse, da Miller a Pasolini.

Il direttore Antonio, nel rincorrersi di capitoli surreali, tesi o commoventi, giungerà probabilmente a soluzione della propria crisi gastroesistenziale, e riscoprirà infine che la gente può fare schifo o paura (già Biante di Priene, VII sec. a.C.: “La maggioranza degli uomini è cattiva”) ma, essenzialmente, è fatta da “quelli che prima la storia inghiottiva ed ora parlano tutti insieme, gridando per farsi sentire” e che “ogni disprezzabile gesto che la gente esprime è una richiesta di esistere”. E d’altro canto, al termine de Il ragazzo mucca, il lettore sarà certo riuscito a riconoscere la presenza – confortante, come sempre – di un intellettuale onesto e, diciamo noi, di un onesto e sensibile scrittore.

Paolo Andreozzi

 

La bio nel 1997

Michele Serra Errante è nato nel 1954 a Roma, è cresciuto a Milano e vive a Bologna. Ha diretto il giornale satirico “Cuore” e scrive su “l’Unità” e “la Repubblica”. Ha già pubblicato: Giorgio Gaber, la canzone a teatro (1983), Tutti al mare (1986), Visti da lontano (1987) e, per Feltrinelli,  Il nuovo che avanza (1989), 44 falsi (1991), Poetastro, Poesie per incartare l’insalata (1993).

Biografia del 2017

Michele Serra Errante è nato a Roma e cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. Scrive su “la Repubblica”, “L’Espresso”, “Vanity Fair”. Scrive per il teatro e ha scritto per la televisione. Ha fondato e diretto il settimanale satirico “Cuore”. Per Feltrinelli ha pubblicato, tra l’altro, Il nuovo che avanza (1989), Poetastro (1993), Il ragazzo mucca (1997), Canzoni politiche (2000), Cerimonie (2002), Gli sdraiati (2013), Ognuno potrebbe (2015), Il grande libro delle Amache (2017) e La sinistra e altre parole strane (2017).

 

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Michele Serra
Il ragazzo mucca
Feltrinelli, 2013

Collana: Universale Economica
217 p., brossura
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