Non so quanti abbiano riconosciuto che Christa Wolf, negli anni della sua – in occidente considerata non sufficientemente dissidente – vita nella Ddr, abbia attuato una propria modalità di denuncia, direi resa esplicita con la pubblicazione appunto di Nessun luogo, da nessuna parte. Una modalità che è rimasta la sua fino poi all’ultimo romanzo, La città degli angeli, tramite il quale ha cercato di spiegare il suo disagio. Il disagio, prima di tutto interiore, dell’intellettuale che non sente di poter aderire a nessuno dei due blocchi socio-politici opposti in Guerra Fredda e fino alla caduta del Muro di Berlino. Chi la voleva salita velocemente sul carro dei vincitori allo sfaldarsi dell’uno per venire “normalizzato” nei meccanismi sociali ed economici dell’altro, restò deluso e non seppe far di meglio che diffamarla, come ha denunciato Gūnter Grass alla sua morte. Un prezzo che la Wolf pagò consapevolmente per la mancata ammissione di colpa, considerata biglietto di ingresso nel mondo dei media occidentali. È evidente invece che il regime della Repubblica Democratica la riconobbe come oppositrice, dato che ella, come il marito, fu spiata per anni e sottoposta a stretto controllo, mentre l’accusa di essere stata delatrice dei propri colleghi all’epoca del Circolo degli Scrittori, basata su convocazioni sporadiche della Wolf negli uffici della Stasi, portarono alla costatazione che le dichiarazioni in quella sede non differivano dai colloqui con i colleghi all’interno del circolo. Detti incontri vennero interrotti dalla polizia stessa perché infruttuosi.

La scrittrice decise con scelta ferma e consapevole di affidare il proprio messaggio alla letteratura, e lo fece con il supporto del suo rigore di germanista: proprio per questo il romanzo Kein Ort, Nirgends, del 1979, acquista centralità in questa analisi.

L’incontro tra Kleist e Günderrode in Nessun luogo, da nessuna parte (in italiano Ed. e/o):

… qualora si presentasse il caso, non saprebbe come rivolgersi a quella donna lì di fronte (…) Si tratta della Günderrode, che sembra occupare i pensieri di Kleist (…) poiché lei, che si è segnalata di recente come poetessa, sia pure con un altro nome – è nobile e non sposata (…)
Signora. Ragazza. Femmina. Donna. Tutte definizioni che le scivolano addosso. Vergine: ridicolo, addirittura offensivo; più tardi rifletterò al perché. Efeba. Idea curiosa, non pensiamoci più (…)
La Günderrode sente lo sguardo tra le scapole, se lo scuote via. Quell’estraneo, che Wedekind ha introdotto, se ne sta lì impalato, tutto solo. Qualcuno dovrebbe occuparsi di lui (…) Chissà che non capiti l’occasione di far sapere a questo Kleist che ho letto il suo lavoro. Devo ancora conoscere un autore il cui umore non migliora d’incanto quando qualcuno in società si professa suo lettore.

Partiamo con il prendere atto che i personaggi, l’ambiente, la riflessione tutta che permea la novella è pertinente alla letteratura e al suo difficile rapporto con la conformità sociale. Infatti i due protagonisti, Karoline von Günderrode e Heinrich von Kleist, sono entrambi e in maniera diversa disadattati, pur se ammessi a frequentare socialmente i cenacoli dell’epoca romantica, nella Germania umanisticamente parlando “trasformata” dalle opere di Goethe. Tale ammissione non è  tuttavia integrazione, per due animi in lotta con le costrizioni borghesi, entrambi morti suicidi: Karoline nel 1806, Heinrich nel 1811.

Nella finzione letteraria essi si incontrano a Winkel am Rhein nel giugno del 1804, a casa di Joseph Merten.

Lei:

Dove io non sono, lì c’è la felicità. La donna, Günderrode, confinata in quel cerchio ristretto, meditativa, perspicace, integra, risoluta a vivere per l’immortalità, a sacrificare il visibile all’invisibile. (…) per finzioni e compiacenze mi manca la voglia, ora e per sempre. Non provo inclinazione per nessuna delle cose che il mondo propugna. Le sue esigenze, le sue leggi e i suoi disegni, tutto mi pare così distorto.

Lui:

Ulrike, la sorella. Pensiero sgradito (…). Perché poi? Chiede la seconda voce che è in lui, e la reprime come inflessibilmente si è esercitato a fare (…) in balia di forze che, non c’è alcun dubbio, ci possono annichilire, perché proprio dentro di noi qualcosa, che non vogliamo conoscere, le asseconda. Quel crollo a novembre. L’orribile inverno. Quei rintronanti, continui monologhi nella sua povera testa.

Lui è accompagnato dal medico che l’ha in cura dopo una forte depressione, Wedekind, lei è con i giovani von Brentano, ai quali è legata da un forte rapporto amicale e intellettuale. Nella realtà storica l’incontro non è mai avvenuto, non si hanno documenti che ne testimonino, nonostante l’assoluta plausibilità del contesto creato dalla Wolf.

Alieni alla capacità di compiacere la buona società che li circonda, Günderrode e Kleist sapranno riconoscersi e venirsi vicini, a partire da una capacità di sguardo trasversale sui rapporti e i ruoli di coloro che accompagnano la loro giornata sul Reno. Ma l’alienazione ha presupposti diversi nei due protagonisti. Da parte della donna è cercata, da parte dell’uomo, è subita.

È superba, questo lo sa? Non è la prima volta che se lo sente dire, la Günderrode, non ha alcun senso difendersene. (…) Che non si possa contare sul fatto che gli altri ci conoscono. Questa donna è irriducibile, non le è necessario essere imperiosa. Risveglia in Kleist ricordi insoliti (…) Ah questa brutta abitudine di essere sempre nei luoghi in cui non vivo, oppure in un tempo che è già trascorso o non ancora venuto…

Karoline si spinge ben oltre i canoni dell’educazione che la famiglia – in difficoltà alla morte del padre – decide le venga impartita in un collegio femminile a Francoforte, e sino a che ella non trovi un matrimonio conveniente. Studia da autodidatta discipline quali letteratura e filosofia, mitologia, chimica, latino, prosodia, sviluppando una personalità volitiva e autonoma che la porterà a infiammarsi per gli ideali della rivoluzione francese. Decide di pubblicare i suoi versi sotto lo pseudonimo maschile di Tian, poiché le donne non possono esercitare professionalmente le arti, in quell’epoca. Il suo elevato livello culturale così come il suo evidente anticonformismo saranno spiazzanti per i partner maschili. Friedrich Karl von Savigny finirà per preferirle la ben più remissiva Gunda von Brentano, mentre il grande amore della sua vita, l’archeologo Friedrich Creuzer, finirà per rompere la promessa fattale di lasciare la moglie, spaventato verosimilmente dallo scandalo tanto quanto dal carattere forte e emancipato della Günderrode, che alla fine porterà a compimento il gesto a lungo meditato: si toglierà la vita.

È invece il fallimento sociale di un uomo dalla personalità fragile e nevrotica che indebolisce Kleist, e lo porta a rimanere vittima di se stesso. Insicuro, non crede nella propria scrittura ma insegue l’opera perfetta, si sente perdente nel confronto con i grandi scrittori romantici della sua epoca, sarà incapace di rispettare l’impegno preso con la fidanzata, e gli peserà il giudizio della “società di Francoforte”. Rimarrà terrorizzato dal passato tanto quanto dal futuro, dal senso del dovere quanto dalla pulsione a eluderlo. Kleist non sfiderà le convenzioni per senso di ribellione ma per incapacità ad incarnarle.

Kleist pensa, ma si guarda bene dall’esprimerlo, di tutti coloro forse non ce n’è uno che sia in contatto col mondo più intimamente di me. L’apparenza inganna. E la Günderrode dice, come se parlasse per lui: persone che su sé stesse non si fanno illusioni, estrarranno cose nuove dalla fermentazione di ogni epoca, proprio esprimendole. Mi pare che il mondo non possa più continuare se questo non viene fatto.

È luogo privilegiato dell’incontro tra i due non tanto la casa borghese sul Reno, popolata da scienziati, dottori, scrittori  filosofi e musicisti, quanto quella mancanza di terreno che entrambi percepiscono in mezzo agli altri. Quel non stare veramente “da una parte”, il non aderire, che inaugura contemporaneamente il percorso di narrazione da parte della Wolf del suo proprio dilemma. Il non luogo dei protagonisti diventa anche il suo territorio d’elezione, che non può essere eletto. L’unico, è privo appunto di un terreno, ed è la letteratura.

Christa Wolf mette in risalto nel romanzo il carattere indomito e fiero della Günderrode sin dalle prime righe, iniziando così il suo processo di avvicinamento a un femminino dotato di qualità di leadership morale, che essa continuerà a esplorare con Cassandra e Medea. Insieme alla novella uscirà un saggio dedicato alla Günderrode, (in italiano L’Ombra di un sogno, ed. La Tartaruga), dove la Wolf metterà tutte le fonti dei suoi studi del personaggio e della produzione letteraria della poetessa. I versi di Tian, i carteggi con i Brentano, le lettere scambiate con Savigny e la moglie Gunda, in una specie di rapporto triangolare che confonde i termini dell’ermeneutica con quelli sentimentali, fino allo scambio intimo e disperato con il Creuzer, che avrà termine con la morte di lei.

Nessun luogo, da nessuna parte guarda a un momento forte e caratterizzante della storia umanistica tedesca. Un momento in cui – tra rivoluzione e restaurazione – i capisaldi della società sono posti in discussione e le nuove generazioni di intellettuali e studiosi dovrebbero essere chiamate a indicare modelli alternativi. Poiché non verrà lasciata loro la libertà necessaria per portare una trasformazione a compimento, rimarranno sospesi, tra i cambiamenti anelati e la loro difficile messa in atto.

L’indagine della scrittrice, così come partita da questo romanzo, si azzarda ad avanzare il dubbio che la sensibilità femminile – ahimè tarpata dalle convenienze sociali – contenga qualcosa di salvifico e guaritore rispetto ai mali che ritornano ciclicamente nelle varie epoche. Verrà completata dalla Wolf con un ritorno indietro ai miti, fino al nodale passaggio dal matriarcato al patriarcato e alla cultura gestita dal maschio. La polemica della scrittrice tedesca si svelerà con Cassandra e Medea definitivamente per quello che è: una polemica sulla gestione maschile del potere.

Ed è quindi l’esprimere, l’affondare nell’interiorità, il portarla all’esterno dandola in pasto al proprio tempo, il metodo che Wolf-Günderrode sceglie. Il suicidio politico della scrittrice ricorderà inevitabilmente quello reale dell’eroina romantica: epiloghi estremi per due epoche di struttura monolitica, destinate a sgretolarsi, non a piegarsi al mutamento.

Christa Wolf sceglie una lingua che ha la stessa forza emozionale, la stessa potenza elegiaca di quella di epoca romantica. Con una tecnica che alterna la voce interiore del personaggio allo sguardo esterno del narratore, con affinata arte di prosciugare la frase, riuscirà a dare essenzialità al linguaggio, che diventa così moderno come non mai.

Günderrode e Kleist, sempre più nudi l’uno di fronte all’altro alla fine del romanzo, potranno illudersi per pochi istanti di essersi toccati l’anima. Solo finché le loro consapevolezze estreme e tragiche non porranno tra loro di nuovo un vetro: questo non potrà essere infranto, senza aggiungere nuove ferite ad altre non rimarginabili.

Quel che lui aveva impiegato anni a capire, la donna lo capisce in pochi minuti: che lui si era logorato lavorando intorno all’impossibile

(…)

Lui vuole disfarsi della parte insanabile della propria natura.
Io scrivo poesie solo perché non posso farne a meno.
Hölderin fa al mondo una proposta conciliante, perché il mondo non possa distruggerlo: il poeta è pazzo.
La Sua offerta, Günderrode? Amatemi?
E la Sua? Distruggetemi?
Ah, Günderrode! Poter essere veramente autentici con se stessi.
Non siamo liberi di esserlo.

(…)

A quest’ora del giorno desidera spesso essere sola e morta per tutti, tranne che per colui che ancora non conosce e che lei si creerà. Si smembra in tre persone, una delle quali è un uomo. L’amore, se incondizionato, può fondere le tre persone separate. Questa possibilità l’uomo accanto a lei non vede. La sua opera è l’unico punto in cui può divenire tutt’uno  con se stesso; non può rinunciarvi per un essere umano. Così è doppiamente solo, doppiamente schiavo.

(…)

Anch’io pensa Kleist, sarò un giorno un cadavere nel pensiero degli uomini? È questo ciò che chiamano immortalità?
Fra le varie epoche, pensa lei, vi è una zona di crepuscolo nella quale ci si smarrisce facilmente e ci si perde in modo misterioso. La vita ci è comunque tolta di mano. Non dovrò essere sempre qui. Sarei dunque invulnerabile?
Senza ragione comincia improvvisamente a ridere, prima piano poi forte e a piena gola. Kleist ne è contagiato. Devono tenersi l’uno all’altra per non cadere a terra dal gran ridere. Non sono mai stati così vicini a sé stessi come in questo momento.

Anna Bertini

 

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