Ex-Libris-0-8-14

Anno 0 | Numero 8 | Maggio 1997

Due volte gli feci degli omaggi letterari da lontano. La prima quando recuperai Stan Laurel per il nuovo romanzo poliziesco, così come aveva fatto lui in Triste, solitario y final, la seconda quando i miei personaggi bombardarono di merda da un aerostato le truppe imperiali di Massimiliano a Querétaro, sulle orme dei personaggi di Soriano in Mai più pene né oblio.

Era uno di quegli autori che ti entrano dentro, che ti conquistano per sempre, come nei racconti di magia, e che non abbandonerai mai più. Uno di quelli che segui con fedeltà rabbiosa, cercando i suoi introvabili libri a tutti i costi e comprando più volte i suoi vecchi romanzi nelle librerie dell’usato per regalarli a giovani lettori.

L’altro ieri squillò il telefono per dirmi della sua morte. Le cattive notizie arrivano presto. Per primo Sepúlveda dalla Germania, poi Juan Gelman, poi Rolo Diez. Si tratta di quelle conversazioni sciocche, in cui non osi parlare d’altro, in cui la notizia che ti hanno rubato un amico provoca una prima reazione di stupore che non se ne va, aggredisce l’irrazionale convinzione che i romanzieri che ti piacciono siano vagamente immortali, stiano al di sopra dei catarri, degli incidenti aerei o del cancro ai polmoni.

Scopri Soriano grazie a un’edizione di Triste, solitario y final, fatta dall’università di Guadalajara verso la metà degli anni Settanta. Era una parodia impazzita in cui un Marlowe preso da una sorta di follia latina si metteva ad investigare ad Hollywood in compagnia di John Wayne, Stan Laurel e Oliver Hardy. Seppi allora che era scampato alla demenziale follia della dittatura argentina ed era esule in Europa.

Successivamente mi ritrovai tra le mani, quasi incollati, uno dietro l’altro, due romanzi che mi avrebbero folgorato: Mai più pene né oblio e Quartieri d’inverno, pubblicati nell’80 e nell’82. Lì mi conquistò definitivamente.

Pochi autori latinoamericani erano capaci di disinvoltura e simpatia tali, di quella abilità barocca nel costruire storie così miste di candore e malizia. Erano storie di resistenze umane, di eroi tragici, di assurdo e di impazzimento; le migliori virtù di chi racconta storie che accolgono personaggi meravigliosi. Furono libri che tenni sul comodino per molti anni, che raccomandai instancabilmente, che regalai e prestai persino, soffrendo poi per recuperarli.

I miei rapporti con Soriano all’epoca erano vaghi, ci scambiavamo io saluti attraverso gli amici in comune, informazioni sui libri che leggevamo. Di lui sapevo che era grasso, calvo, che stava a Barcellona, in Italia, che aveva attacchi di tristezza.

Seguì un vuoto, poi dall’Argentina iniziarono a rispuntare i suoi romanzi, nel 1986 uscì La resa del leone, dove un console argentino inciampa in un paese africano che non ha neanche un nome e decide di far arrivare in quel pizzo di mondo lo spirito delle Malvine. Poi fu la volta di un romanzo che mi commosse moltissimo, meraviglioso. Un’ombra ben presto sarai, un libro che sembrava uscito dalle migliori pagine di Faulkner, con la virtù del piglio latino, una storia di perdenti che vagano per strade senza nome nella Patagonia metafisica che cade tra Cleveland, Ohio, e la frontiera boliviana.

Lessi più tardi i suoi saggi, soprattutto la sua meravigliosa versione della storia della coca-cola e Artisti, pazzi e criminali.

Alla fine ci conoscemmo in Francia. Fu sensazionale. Grazie, amico, ci dicemmo, per le ore passate insieme, per le vendette e i sogni condivisi. Paloma, mia moglie, che non ha tanto rispetto per gli scrittori, a furia di vivere da venticinque anni con uno di essi, gli regalò la sua scatola di cioccolatini belgi, in cambio del piacere che le aveva procurato la lettura di Mai più pene né oblio, anni prima. Fissammo un appuntamento per la Semana Negra di Gijón a luglio. Ci giurammo lettura eterna, guerra a morte agli orchi e solidarietà cameratesca…

Ieri, quando mi giunse la notizia della sua morte, cercai sotto il letto l’ultimo romanzo di Soriano L’occhio della patria, che si era nascosto nella pila dei libri in attesa di lettura. Lo aprii a caso, lessi la frase: «Gli insegnarono ad amare confusamente la patria», era un epitaffio come un altro.

Non so bene, amico Soriano, se non ci saranno più pene, credo che ce ne saranno ancora molte; qualcosa tuttavia posso garantirti, compagno: oblio, quel che si chiama oblio, non ci sarà di certo. Continueremo a leggere i tuoi romanzi, più e più volte, finché la carta resiste, finché funziona la vista, finché arriva l’ora di abbandonare la barca e siano gli altri a continuare a leggere.

Paco Ignacio Taibo II

Traduzione di Nancy De Benedetto


Questo articolo è stato ripubblicato (con grafica diversa) nella rubrica thema
del numero 12 di exlibris, settembre 1998