Non so quanti di voi abbiano letto Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa. Chi l’ha fatto sicuramente avrà trovato dei passaggi del romanzo particolarmente intensi, quasi musicali.

Il romanzo della Abulhawa è un pentagramma. Ogni personaggio, ogni luogo, ogni avvenimento raccontato è come una melodia. La musica è una grande protagonista della letteratura araba, specie di quella palestinese. Quasi ogni personaggio, così come quasi ogni persona nella vita reale, in Palestina, ha qualcosa a che fare con la musica perché “la musica ha il potere di cambiare lo spazio”. Questa frase l’ho sentita pronunciare da un regista italiano, Dimitri Chimenti, quando mi ha raccontato della sua esperienza di regia del documentario Just Play, un delicatissimo film sulla musica dei bambini della scuola Al Kamandjati, nei Territori occupati.

La musica è l’unico linguaggio in grado di unire i popoli. Grazie alla musica non esistono frontiere tra i popoli, soprattutto quando essa è simbolo di una cultura molto forte e radicata…”.

Lo diceva in un’intervista Goran Bregović, il musicista folk di origini bosniache, la cui musica nasce ancora una volta dalle viscere di una terra amara, dove le divisioni ed i conflitti hanno lasciato profondissimi solchi che lui ha deciso di riempire di ritmi gitani, di sonorità un po’ selvagge, affidate spesso al suono grosso degli ottoni.

Insomma, la musica ci racconta tante possibilità, tante vite.

Prendiamo ad esempio, la West-Eastern Divan Orchestra, l’orchestra sinfonica unica nel suo genere, voluta e fondata nel 1999 da Edward Said e Daniel Barenboim. Prendiamo il suo carattere peculiare: il fatto di essere composta da musicisti sia israeliani che palestinesi, accomunati da una enorme passione che li unisce al di là delle guerre. Riusciamo a vedere la magia della musica?

Bene, se ci riusciamo non ci sarà difficile vedere che la stessa cosa fa o tenta di fare la Abulhawa nel suo romanzo.

Nel ripercorrere tutti gli eventi più drammatici, dal 1948 al massacro del campo profughi di Jenin, legando la storia di Amal Abulheja, la protagonista del romanzo, e della sua famiglia per quattro generazioni, alla storia dell’intero popolo palestinese, talvolta la Abulhawa ci spiazza regalandoci inaspettati, colorati, poetici, gioiosi e musicali descrizioni di Jenin.

Musicale è, ad esempio, il quadro di Jenin a pochi giorni, a poche ore dal disastro del massacro:

“…entrammo in quella Jenin molto più alta di prima. Quella Jenin molto più affollata. L’indaffarata, risoluta, arrabbiata Jenin. Non la passiva Jenin della mia infanzia, che si affidava alle mani di Dio. Io e mia figlia ci prendemmo per mano e ci inoltrammo nelle stradine serpeggianti, con il sole che tremolava sui rivoletti delle acque di scarico. La musica usciva dalle case e si riversava sul nostro tragitto. Riconobbi Fayruz, la sua voce che si arrampicava come la libertà verso e dentro il cielo […]. Una folla di polli starnazzanti batté le inutili ali cercando di scappare dai bambini che li rincorrevano. Certe cose non erano cambiate”.

Jenin, sotto le bombe, diventa poi come una tela bianca sulla quale Mansur, l’artista silenzioso, dipinge i suoi murales:

“Mansur muoveva le braccia tracciando larghe e fluide pennellate su un muro che avrebbe accolto l’imminente invasione israeliana. Poco dopo, un volto implacabile emerse dalla pittura, con occhi esasperati che guardavano da sotto la kefiah verso un 1948 senza futuro, verso la libertà di una morte provocatoria che esplodeva in un letamaio di gloria […] Raccogliemmo le opere di Mansur in una piccola pila di fogli. Ritraevano il mondo come lo vedeva lui: Huda che pregava, Sara abbandonata tra le mie braccia, Jamil vittorioso in battaglia, il profilo di Sara, noi tutti piegati su un umile pasto, con l’angelo della morte che ci sorvegliava dall’alto.”

Jenin come Parigi, come una qualsiasi capitale europea, con la sua musica, la sua frenesia, i suoi artisti e le sue opere d’arte…

E poi, d’improvviso, l’orrore. Amal Abulheja muore sotto il fuoco dei cecchini israeliani, colpita mentre col suo corpo quasi vola a coprire sua figlia Sara e salvarle così la vita.

L’intensità del momento davvero drammatico della morte della protagonista è, ancora una volta, raccontato dalla Abulhawa in una maniera che può sorprendere. Mentre, infatti, ci schiude le porte dell’inferno mostrandoci “la polvere apocalittica che galleggia[va] nell’aria come un’alga”, ci apre quelle del paradiso, raccontandoci del sogno di Sara. Ed allora è come se tutti noi lettori stessimo sognando, insieme a Sara, il suo stesso sogno di vita, d’amore e di libertà:

“Sara non sapeva perché sua madre fosse uscita quel giorno. C’era stata davvero un’ambulanza della Mezzaluna Rossa? I suoi occhi si erano appena svegliati da un sogno quando aveva varcato la soglia per raggiungere Amal. Stava sognando del suo concerto di violino, poco prima di compiere dieci anni, quando aveva guardato tra il pubblico e visto il volto di sua madre pervaso da un dolce senso di orgoglio […] All’improvviso vedeva anche i suoi nonni, Dalia e Hassan, zio Yussef, Fatima, la cugina Falastin, il bisnonno Yehya con la bisnonna Bassima, ‘Ain Hod e i cavalli del prozio Darwish, e tutti i volti e le storie che avevano popolato la sua mente durante quei giorni a Jenin…”

Questo sogno di libertà è un concerto di violino. È una musica.

Mi piace pensare che questo libro così bello, che racconta di fatti così brutti, si avvii alle sue ultime battute seguendo proprio la musica del concerto di violino di Sara, ancora bambina, piena di aspettative, piena di vita e di amore per la vita, per un motivo. Mi piace pensare che questo motivo sia lo stesso che spinge moltissimi bambini in Palestina a dedicarsi alla musica già da molto piccoli. Mi piace pensare che la musica gli renda non solo più sopportabile, ma addirittura più bella l’esistenza in un luogo dove essa è contrassegnata da indicibili sofferenze quotidiane, dalla divisione, dall’indifferenza e dalla guerra.

Il libro della Abulhawa non è un libro sulla musica, questo è chiaro. È un libro sulla crudeltà delle guerre, sui sogni infranti, sui paradossi, sulla morte, ma soprattutto sulla vita.

Mi piacerebbe che lo si leggesse come una canzone, che si riuscisse a sentire l’eco delle voci paestinesi, il volino di Sara, il flauto di Yehya, i polli starnazzanti, le bombe…e che tutta questa musica diventi un rumore assordante. Mi piacerebbe che nessuno possa mai più chiudere le orecchie su tanta sofferenza, che il mondo, a suon di questa musica, si svegli, apra gli occhi. Leggere questo romanzo è già un inizio, ci porta sulla buona strada per il risveglio.

Antonia Frascione