È un pomeriggio estivo, alcuni mesi fa – oppure è già trascorso più di un anno? Io e Dario (Voltolini) siamo seduti al tavolino di un bar. Stiamo parlando – qualcuno direbbe “chiacchierando” perché ridiamo spesso, come se le parole che scambiamo fossero leggere, quasi senza peso, nient’altro che battute. Forse parliamo e nello stesso tempo chiacchieriamo, come succede tra amici che non si vedevano da un po’ e si raccontano dolori ed episodi buffi e divertenti, tutto insieme.

Siamo all’aperto, a Torino, in Borgo Dora, e c’è una bella luce, persone che camminano per strada, che filano veloci in bicicletta.

Ci conosciamo da più di vent’anni.

Mi chiede di me, con quell’affetto e quel calore autentici che lo accompagnano da sempre. Gli chiedo di lui, vorrei sapere come sta, vorrei sapere della sua scrittura. Mi ha fatto avere, qualche tempo prima, alcune pagine bellissime – non lette, piuttosto divorate – e lui risponde: “Sì”, tagliando l’aria con la mano quasi intendesse dire “lascia stare”, poi aggiunge: “Non lo so”, chissà dove lo porteranno quelle pagine, chissà dove sta andando la scrittura, in quale direzione, e dove stiamo andando tutti noi, e questo è un altro tratto che conosco, questo schermarsi, tra una risata e l’altra, come se in fondo non contasse.

Andiamo avanti per un po’, parlando e chiacchierando. A un certo punto mi racconta un episodio di quando era bambino, ciò che a quel tempo aveva immaginato – visto e sentito – guardando un bigliettino di Natale, di quelli colorati e luccicanti, una scena invernale, la carta spruzzata d’argento come se avesse appena nevicato.

Lo ascolto sporgendomi in avanti, il mento sulle mani. Lo ascolto come sempre, da più di vent’anni: con attenzione, con meraviglia e con stupore, sapendo quanto contino le sue parole, sapendo bene che non le scorderò.

Secoli fa, quando scrivevo poesie – e gliele avevo date, poveretto – sentii il telefono squillare ed era lui.
“Mi piacciono”, disse, “ma devo chiederti una cosa”.
In quelle poesie avevo scritto “v’è”, non “c’è”. Sempre e soltanto “v’è”. Non mi ricordo perché l’avessi fatto: pareva più poetico, probabilmente. Un po’ più raffinato, più adeguato.
Mi chiese a cosa mi servisse, se fosse necessario.
Risposi che non lo sapevo ma che non era necessario, a dire il vero. Proprio no.
“E allora scrivi c’è”, mi disse lui, semplicemente.
“Te lo ricordi cosa mi avevi detto?”, gli domando, e gli racconto della telefonata. Lui non se la ricorda, com’era prevedibile: spalanca gli occhi, butta la testa indietro e scoppia a ridere di nuovo.
Ho scritto “semplicemente” perché è così che me lo disse, chiaro e tondo e senza giri di parole, ma quelle due domande – a che ti serve? È necessario? – hanno cambiato la mia vita.

Il tempo che è trascorso da quel lontano pomeriggio – il tempo è come un’onda – ha spinto sulla riva, fino a me, a tutti noi, il suo ultimo, bellissimo libro.

S’intitola Pacific Palisades.

In quelle pagine, tra prosa e poesia, tra vivi e morti, tra spazio e tempo, tra la memoria e le distanze che si annullano, i nostri corpi e ciò che li attraversa, ciò che del mondo penetra all’interno oltre le nostre palizzate, ciò che di noi scivola fuori e il nostro nascere continuo, tra quelle pagine, dicevo, c’è un bigliettino di Natale, spruzzato d’argento come se avesse appena nevicato, e c’è un bambino che lo guarda. Ecco perché sono tornata all’improvviso a quel lontano pomeriggio, il tavolino di quel bar, la bella luce che splendeva e le nostre risate.
Con meraviglia e con stupore: così leggiamo i libri di Dario Voltolini. Sempre. Nel caso di Pacific Palisades, la meraviglia e lo stupore tolgono davvero il fiato.

Le lezioni più importanti e i libri più belli – non c’è altro da aggiungere – arrivano semplicemente e non si possono scordare.

Elena Varvello