Anno 1 | Numero 7 | Aprile 1998

Questo è il sottotitolo di un libro di quasi venti anni fa: Josep Carner / Carles Riba / J.V. Foix / Salvador Espriu, Poesia catalana del novecento, a cura di Giuseppe F. Sansone, Roma, Newton Compton, 1979 (Paperbacks poeti/ 81). Sansone propone un’antologia, con testo catalano a fronte, di quelli che considera i rappresentanti di una non esile schiera di poeti, tutt’altro che secondari, che avrebbero tutti buon diritto di figurare in una selezione della poesia catalana del novecento, concepita secondo modelli tradizionali. La loro vita “è stata attraversata da quel grande evento storico che fu la guerra civile e da quell’esito innaturale che ne fu la dittatura, in Catalogna sofferta con più specifica intensità”. Uniti da questa comune esperienza i quattro poeti scelti si dispongono lungo una traiettoria che evolve e li diversifica.

Carner viene considerato l’interprete più autorevole delle idee estetiche di Eugeni d’Ors (1882- 1954), corifeo del Noucentisme, che vedeva la Catalogna come parte di una cultura mediterranea, erede della classica greco-romana e quindi bandiva quell’ inutile nazionalismo, radicato in buona parte del popolo catalano. Alla parola orsiana dunque si mantiene fedele Carner, nel corso della sua lunga vita (1884-1970), trascorsa per buona parte fuori di Catalogna (avendo intrapreso la carriera diplomatica nel 1921), pur nell’innegabile evolversi della sua poesia e nonostante un avvio precoce, da modernista. La poesia di Carner si costruisce con finezza emotiva nell’occasione minuta (un attimo di tristezza un paesaggio appena goduto), trattata spesso con toni ironici, ma un’ironia che non graffia. Dopo la guerra civile Carner scelse volontariamente l’esilio e la sua voce conobbe toni più dolenti, senza mai però trascendere nel tragico: egli intendeva la professione poetica come nobilissimo esercizio della parola, e non come rifugio dove dare sfogo al proprio mondo d’immagini e idee.

In questa linea orsiana, Riba (1893-1959), di cui Sansone aveva da poco pubblicato le splendide Elegie di Bierville (Torino, Einaudi, 1977), rappresenta la fase di rinnovamento in senso umanistico ed europeo dell’intera cultura catalana, attraverso un’intensa interiorizzazione intellettuale, che si riflette nella limpida rigorosità della sua poesia e nell’ampia e solida cultura che le sta dietro. Docente, critico letterario, traduttore di grande talento dal greco, latino, nonché dall’italiano, dal francese, dal tedesco, dall’inglese e dal greco moderno, fu in esilio dal 1939 al 1943.

E poi c’è il poliedrico Foix (1893-1987), che contribuì con personalissimi interventi alle nuove correnti importate dalla Francia e dall’Italia, pur ritenendo l’avanguardia un movimento puramente velleitario, da compensare col rigore dei classici. “Spericolato innovatore di palese motivazione surrealista (e surrealista lo fu con notevole anticipo sui tempi di Francia)”, nel 1947, ostentando come data il 1936 per ingannare la censura, pubblica il suo primo libro di poesie, Sol, i de dol, dove alla scelta di una forma classica, il sonetto, corrispondono i riferimenti ai poeti catalani medievali (soprattutto Ausiàs March), provenzali e toscani (Petrarca e, in minor misura, Cavalcanti), rivissuti e attualizzati sia pure in una lingua di un apparente retrogusto medievale (riproduciamo nelle pagine seguenti il sonetto che dà il titolo al libro).

E in ultimo c’è Espriu (1913- 1985), avvocato e poeta, autore di opere teatrali e narrative, che ha affermato che la sua poesia scaturisce da una “meditazione costante e ossessiva della morte”; ma si tratta di una morte che coincide con il vivere stesso; la sua parola si diversifica, cerca nuovi spazi, “il suo è un Mediterraneo piovoso, non solare proprio l’opposto dell’ottimismo novecentista”. La ricerca lessicale, che Espriu apre anche a forme dialettali, è quanto accomuna questi poeti; ma non si tratta che di un sintomo di una cultura, che è mediterranea ma anche europea e che ci coinvolge un po’ tutti, oggi più di ieri.

Anna Maria Compagna

 

“Dove sono? mi dico. Per qual vecchia terra
per che cielo morto –, o pascoli muti,
aneli da folle?”

 

Sol i de dol, i amb vetusta gonella,
Em veig sovint per fosques solituds,
En prats ignots i munts de llicorella
I gorgs pregons que m’aturen, astuts.

I dic: On só? Per quina terra vella,
-Per quin cel mort-, o pasturatges muts,
Deleges foll? V ers quina meravella
D’astre ignorat m’adreç passos retuts?

Sol, sóc etern. M’ és present el paisatge
De fa mil anys, l’ estrany no m’ és estrany:
Jo m’hi sent nat; i en desert sense estany

O en tue de neu, jo retrob el paratge
On vagui, i de Déu, el parany Per heure’m tot.
O del diable engany.

 

Solo, nel lutto, con tunica antica,
mi vedo sovente per fosche solitudini,
in prati ignorati e montagne d’ardesia
e gorghi profondi che mi fermano, astuti.

Dove sono? mi dico. Per qual vecchia terra
– per che cielo morto -, o pascoli muti,
aneli da folle? Verso che meraviglia
d’astro ignorato volgo i passi sconfitti?

Sono eterno, solo. M’è presente il paesaggio
di mille anni or sono, non m’è noto l’ignoto:
io mi sento nato, e in deserto senza stagno

o in picco di neve, io ritrovo il luogo
dove già vagai e l’agguato di Dio
per possedermi tutto. O del diavolo inganno.

J.V. Foix

 

“… Verso che meraviglia d’astro ignorato vago i passi sconfitti?”

Il libro è fuori catalogo