Ex-Libris-0-8-7

Anno 0 | Numero 8 | Maggio 1997

Carmen Sternwood, bambina viziata del Grande Sonno a Philip Marlowe: «Siete alto, eh?» «Non lo faccio apposta». «Siete un campione di boxe?» «Non proprio. Faccio il segugio». Il generale Sternwood a Philip Marlowe, poco dopo: «Siete piuttosto cinico. Non vi piaceva lavorare per Wide?» «Sono stato messo alla porta. Per rifiuto d’obbedienza. Faccio collezione di rifiuti d’obbedienza, generale». Philip Marlowe al maggiordomo di casa Sternwood: «Firmate voi i suoi assegni?» «Ho questo privilegio». «Dovrebbe potervi evitare di finire nella fossa comune. Al momento non voglio soldi, grazie. A che proposito mi vuol vedere la signora Regan?» E alla fine del capitolo, Vivian Regan Sternwood, dark lady e moglie dello scomparso Rusty Regan ad uno scontroso Philip Marlowe: «Non mi piacciono i vostri modi». «E neppure io vado pazzo per i vostri. Non sono stato io a chiedervi di vedermi. Non me ne frega nulla che mi trattiate dall’alto in basso e che vi scoliate una bottiglia di scotch per pranzo. E non me ne frega nulla che mi facciate vedere le gambe. Sono belle gambe e sono lieto di fare la loro conoscenza. Ma non me ne frega nulla neppure che non apprezziate i miei modi. Lo so che non sono buoni. A volte me ne rammarico nelle lunghe sere d’inverno. Ma perdete il vostro tempo se pensate di tirarmi fuori qualcosa».

Non stupisce proprio che tra i debiti che dichiara verso Raymond Chandler Osvaldo Soriano citi espressamente la tecnica del dialogo. È un debito che hanno tutti quelli che scrivono dopo aver letto Chandler perché i dialoghi di Philip Marlowe e compagni sono una cosa che difficilmente si dimentica. La ragione è semplice: sono straordinariamente efficaci.

Sono vivaci e realisti, a volte anche letterariamente poetici ma allo stesso tempo sempre funzionali al racconto. In ogni battuta, ogni parola è scelta per far compiere un passo avanti alla narrazione, alla descrizione dell’atmosfera e del personaggio e allo stesso tempo non è soltanto questo, è anche viva ed evocativa, carica, bella. E urgente.

È quella cosa che preme dentro, brucia sulla lingua e va detta a tutti i costi e proprio in quel momento. Sono quelle battute che Philip Marlowe dice quando i gangsters gli stanno facendo a pezzi la giacca per cercare una lettera e lo tengono in due e lui guarda il terzo e gli chiede: «Ma tua madre lo sa come ti guadagni da vivere?». Un momento dopo è a terra che si contorce per un cazzotto nello stomaco ma quella cosa, quella battuta, non poteva rimanere dentro e andava detta, anche a costo di farsi ammazzare. Ma l’urgenza non basta, c’è anche la velocità.

È un po’ come se la lingua scivolasse rapida sul palato, battesse contro i denti e tornasse subito indietro, velocissima, da virgolette di apertura a virgolette di chiusura. A volte, batte sui denti e vibra talmente di solletico che è costretta a muoversi ancora e a battere sempre più veloce, avanti e indietro. Sono quelle splendide battute di Philip Marlowe, così cariche di ironia. Vivien a Marlowe: «Oh, vi siete alzato finalmente. Credevo che lavoraste a letto come Marcel Proust». «E chi è?» «Uno scrittore francese specialista in degenerati. Non credo che lo possiate conoscere». «Davvero? Bè, passate nel mio boudoir…» Marlowe al cattivo di turno: «Questo è un gingillino, figliolo. Ma se vi ficco un confettino nelle trippe ci vorranno tre mesi prima di ricominciare a camminare. Però vi prometto che un giorno guarirete e potrete così andarci con i vostri piedini ad inaugurare la nuova camera a gas di San Quintino».

A volte, invece, la lingua batte veloce sui denti e si taglia e continua a muoversi, ma per il dolore. Sono quelle battute cariche di malinconia che si trovano in Finestra sul Vuoto, dove Marlowe parla a se stesso alla chiusura di un caso: «E mentre vedevo la casa sparire provai dentro di me una sensazione strana, come se avessi scritto una poesia molto bella e l’avessi perduta e sapessi che non l’avrei più potuta ricordare». O nel Lungo Addio, da un poliziotto a Philip Marlowe: «Arrivederci, amico. Non le dico addio. Gliel’ho detto quando aveva un senso. Gliel’ho detto quando ero triste, solo e alla fine». Che è, appunto, il titolo di un romanzo di Osvaldo Soriano: Triste, solitario y final.

E qui il cerchio si chiude. «Dove siamo?» «Questo posto si chiama Colonia Vela. Siamo a duemila chilometri da Rio de Janeiro». «Mi piace guidare. Una volta sono stato in Alaska e poi mi sono ritrovato a Kuala Lumpur. Non ricordo di essere mai salito su una nave». «Come ha fatto a tornare?» «Non ricordo. Ho un buco qui. Mi mancano dieci anni».

E questo non è più Philip Marlowe, non è più Chandler. È Osvaldo Soriano.

Carlo Lucarelli

 

Non c’è mai stata sistematicità nelle mie scelte. Mi rendo conto che ho letto in maniera caotica. Erano i miei amici a comunicarmi le loro letture e a passarmi i libri. […] Tutto questo finché non è entrato nella mia vita Raymond Chandler, che per me è stato fondamentale. Non credo di avere scritto un dialogo credibile se non dopo aver letto The Long Good-bye. Sono diventato una specie di fanatico di Chandler e dei suoi personaggi. Questo scrittore mi ha trasmesso un mondo che fa ancora parte di me…