[Spoiler: sulla corsa non sono obiettiva, è alta la probabilità che i toni siano accesi e accorati.]
Proprio così, la corsa non mi è indifferente. Ho iniziato a correre circa cinque anni fa, con l’idea di condividere qualcosa con mio marito e di voler mantenermi in forma. Nessun entusiasmo particolare, dunque, nessuna aspettativa per un’attività che consideravo quasi noiosa e immotivatamente faticosa. Solo dopo, con il tempo, la corsa è diventata una sfera importante per me, che ha a che fare con lo sport, sì certo, ma ha anche molto a che fare con altro, ben più profondo.
E quando si scopre una nuova passione si cominciano a fare cose (anche) insensate, come leggere libri sulla corsa che prima mai si pensava di poter acquistare. Io l’ho fatto. E ritrovarmi in quella stessa urgenza, a volte febbrile a volte metodica, di tre autori completamente diversi mi ha fatto leggere nero su bianco quelle riflessioni che vagavano nella mia testa vaporizzate e senza consapevolezza. Perché cos’hanno in comune uno scrittore di romanzi saggi e racconti, un antropologo e un pianista compositore? Sarebbe troppo semplice se la risposta fosse solo “la maratona”. Il loro sguardo sullo stesso gesto di correre ne racconta tre aspetti diversi, complementari e, a parer mio, molto affascinanti che i runner sicuramente conoscono ma che non sanno spiegare altrettanto bene a chi non corre.
La corsa come arte
Il libro di Haruki Murakami – L’arte di correre, Einaudi 2007 – ho scoperto essere un must read per ogni corridore. E non solo perché gli amici te lo regalano a Natale per nutrire il tuo hobby. Intanto per lo stile colloquiale, semplice e rigoroso che rende il libro un godibile diario di corsa e di vita. Poi per l’amore che traspare per la disciplina e il rito, una gioia che non è appannaggio solo dei giapponesi, ma anche dei runner. Infine, per quel personalissimo distillato di mindset orientale che si preannuncia già dal titolo, ricordando best seller come Lo zen e il tiro con l’arco.
“Vi troverete regole e consigli basati sull’esperienza. Nulla di importante, parlare di ‘filosofia di vita’ è forse eccessivo. Comunque l’attività che consiste nello spostare concretamente il mio corpo nello spazio, attraverso una sofferenza diciamo opzionale, mi ha fornito un’occasione estremamente valida di apprendimento. Forse non funziona così per tutti, ma per me sì”. Ecco come presenta l’autore il suo libro nella prefazione. E commenta: “La regola vuole che un vero gentiluomo non parli delle sue ex fidanzate, né delle tasse che paga. No, tutto falso. Scusatemi, me lo sono inventato in questo momento. Ma se questa regola esistesse, forse imporrebbe anche di ‘non parlare di ciò che si fa per mantenersi in buona salute’. Perché un vero gentiluomo difficilmente in una buona conversazione si dilungherebbe su un argomento del genere. Per lo meno a mio parere.
Io però, come tutti sanno, non sono un gentiluomo, quindi del galateo me ne infischio. Tuttavia – perdonate se ho l’aria di giustificarmi – provo un leggero imbarazzo a scrivere questo libro, benché non si tratti di un manuale di igiene fisico-mentale, ma di un testo sulla corsa a piedi. Non ho alcuna intenzione di lanciarmi in esortazioni edificanti – forza, manteniamoci in forma correndo ogni giorno qualche chilometro! – no, voglio soltanto fare alcune riflessioni, o forse un soliloquio, su ciò che ha significato per me, per la mia persona, praticare la corsa per tutto questo tempo”.
Murakami riesce in modo contemporaneo e allo stesso tempo antico a descrivere la dedizione per la corsa, per il corpo, per la fatica, per le regole, per il piacere del risultato. Disegnando intersezioni reali con il mestiere di scrivere: “La stessa cosa si può dire che accada nella professione di scrittore. In questo lavoro – per lo meno per quanto mi riguarda – non c’è vittoria o sconfitta. Può darsi che il numero di copie vendute, i premi letterari, le recensioni dei critici costituiscano dei criteri in base ai quali giudicare il risultato, ma non sono l’essenziale. Ciò che conta, più di ogni altra cosa, è che l’opera compiuta corrisponda ai criteri che lo scrittore stesso ha stabilito, e in questa valutazione non gli sarà facile barare. Davanti agli altri bene o male si possono trovare dei pretesti, ma ingannare se stessi è impresa ben più ardua. In questo senso scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno”.
La corsa come processo creativo
Il concetto del silenzio in Murakami viene affrontato dal punto di vista meditativo: “Voglio pensare ai fiumi. Voglio pensare alle nuvole. Ma in realtà non penso a niente. Semplicemente continuo a correre in un silenzio di cui avevo nostalgia, in un comodo spazio vuoto che mi sono creato da solo. E dicano quello che vogliono, ma è una cosa fantastica!”. La corsa per Murakami, ed è così anche per me, è meditazione in movimento: fusione totale con il mondo esterno, un tutt’uno che si sposta nel reale in una sintonia perfetta.
C’è poi chi, come il pianista e compositore Patrick Trentini, trova nel vuoto generato dalla corsa la condizione perfetta per il processo creativo. Da A volte corro piano (Reverdito Editore, 2018): “Nasce così un momento che non stento a definire alchemico, uno stato di ‘flow’ che, per una fortunata (seppur cercata) combinazione di luogo, tempo, silenzi, legno, dita, creatività, fissa un momento che non ha né tempo né spazio, ma solo musica. Ciò vale tanto per la scrittura musicale quanto per l’esecuzione e – in alcuni momenti – anche per la corsa. I risultati migliori si ottengono quando si smette di pensare, quando si è talmente ‘avvolti’ dall’allenamento da lasciare che la concentrazione non equivalga al controllo. […] È incredibile quanta musica possa nascere dal silenzio”.
Adesso scriverò una frase slogan: non sono i corridori a scegliere la corsa, è la corsa a scegliere i corridori. Scrivo questo perché leggendo Murakami e Trentini ho raggiunto la consapevolezza che non si è corridori solo in corsa, lo si è nella vita. E Trentini lo spiega chiaro e semplice: “Il pianoforte non lo si sceglie quando si ha del tempo libero. È un compagno di vita esigente, che occupa ogni pensiero qualsiasi cosa si stia facendo. Assomiglia all’ansia, che è sempre presente, manifesta o nascosta. […] Il pianoforte e la corsa (il running, come ormai va di moda chiamarlo) sono esattamente la stessa cosa. Gesti piccoli, ripetuti, studiati in ogni minimo dettaglio. Gesti privi di tutta quella libertà che potrebbe sedurre chi non li pratica”.
Metodicità, ripetitività, rituale creano le condizioni favorevoli al processo creativo. La corsa diventa strumento prolifico versatile e trasversale. Per uno scrittore come per un pianista. Nella prefazione al volume di Trentini, Giorgio Calcaterra – atleta italiano che si è aggiudicato per tre volte il titolo di campione del mondo nella 100 km di ultramaratona e ha vinto per 12 volte consecutive la 100 km del Passatore – scrive: “Ho compreso che le passioni dell’autore si intrecciano e contengono entrambe le caratteristiche proprio grazie al suo modo di viverle. La corsa diventa musica e comporre è un viaggio”.
La corsa come esperienza del limite
Corsa e viaggio si sposano bene. Ma non solo nell’accezione letterale. Se pensiamo al viaggio come un percorso che ci porta da un punto iniziale a un punto finale diverso, attraverso delle tappe che ci portano a destinazione trasformati, ecco, anche in questa interpretazione corsa e viaggio si sposano bene di nuovo (ogni riferimento al viaggio dell’eroe è puramente voluto). “Correre una maratona è un addestramento per attuare una trasformazione nel modo di percepire la realtà attraverso il corpo e il movimento: dal guardare al toccare. Solo toccando, la realtà esiste. Sentire la realtà come corpo, come estensione del proprio corpo, come sostiene Merleau-Ponty, significa accedere a una dimensione selvatica, intesa come possibilità di relazione tattile”.
A scrivere è l’antropologo e maratoneta Paolo Maccagno, che nel suo Lungo lento. Maratona e pratica del limite (Quodlibet Studio, 2015) riflette su un aspetto molto importante della corsa – e credo di ogni sport condotto a livelli estremi – che è quello del superamento dei propri limiti. Mente e corpo sono legati saldamente nella corsa, l’esperienza non si riduce a una mera questione di forza di volontà, nel momento in cui diventa estrema trascende il risultato pratico per diventare esplorazione sensoriale psicologica e intima. “Abbiamo bisogno di superare i confini che normalmente ci inchiodano all’interno della nostra soggettività, prima di poter cercare di capire l’Altro inteso come territorio nuovo e inesplorato”. E per dirla in modo ancora più chiaro: “Il limite è ‘l’unica condizione di possibilità per l’emergere di trasformazioni sociali impensabili’. Entro i limiti, la libertà”.
Maccagno riassume in parole chiare e dal rassicurante sapore scientifico quella sensazione galvanizzante di empowerment (uso il termine inglese apposta perché lo trovo quasi figurativo) che ti regala una corsa ben fatta, ben condotta e ben riuscita, quella che ti ha portato fuori dal tuo solito tempo o dalla tua solita distanza, mostrandoti un te nuovo, diverso, più forte. È la corsa al di là della comfort zone. Ed è la stessa sensazione galvanizzante che si prova quando, nella vita pratica, quella delle relazioni e dei sentimenti e del lavoro, ci avventuriamo fuori dal noto e ne torniamo soddisfatti e appagati. Una versione intimista della tanto sentita “la crisi è un’opportunità”.
“Correre una maratona mi ha fatto sentire vivo. È questo il presupposto da cui sono partito, quello che mi fa continuare a correre e che mi ha spinto a riflettere scrivendo questo libro. È l’esperienza del limite che procura la sensazione di sentirsi vivi, qualcosa di fecondo sul piano dell’esistenza personale quanto su quello dell’agire conoscitivo. […] Il limite è insomma la possibilità di cambiare e trasformarsi, e la maratona è una pratica di libertà”.
Daniela Giambrone
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