La potenza della scrittura di Jason Mott esplode sin dalle prime pagine nel suo ultimo romanzo Che razza di libro! edito da NNEditore, in tutte le librerie dal 12 maggio, con la traduzione di Valentina Daniele, e meritatamente vincitore del prestigioso National Book Award 2021.

Attraverso una struttura narrativa articolata su due piani temporali, con due protagonisti, un bambino Nerofumo e l’uomo-scrittore, con due diversi punti di vista, la terza persona per il bambino e la prima persona per la voce dell’uomo, e l’aiuto di capitoli alternati, Jason Mott con Che razza di libro! ci trascina senza alcun paracadute nel quotidiano significato di avere la pelle nera nell’attuale società americana.

«Volevo che mi vedessi, solo questo».
[…] È una cosa bellissima da dire a una persona. Non è quello che vogliamo tutti? Essere visti?

Ed è proprio attorno al significato di essere visti e non visti, sulle notizie inviate dai telegiornali che non sono certo le notizie a uccidere. Voglio dire, CNN e Fox News non vanno in giro ad ammazzare la gente per strada. Però contribuiscono a quell’atmosfera di terrore che sentiamo tutti, sul valore e non valore attribuito al colore del pelle, sui pregiudizi che si trascinano pesantemente da generazioni perché I bianchi non ti hanno fatto niente. Non sei mai stato uno schiavo. Non ti hanno mai venduto né frustato. Non puoi odiare una massa di persone per cose che hanno fatto i loro antenati. Ma è questo che i negri non vogliono capire, che Jason Mott imposta un romanzo giocato al limite tra il reale e l’immaginazione per poi annientare il lettore con frasi che hanno bisogno di una pausa, di un respiro profondo, di un momento di riflessione per essere comprese e assimilate.

«Voglio dire che gli scrittori bianchi non devono scrivere per forza dell’essere bianchi. Possono scrivere i libri che vogliono. Ma visto che sono nero… posso solo scrivere della nerezza? Mi è permesso scrivere di altre cose? Voglio dire, […] non è di questo che parlava il famoso discorso I have a dream?».

Che razza di libro! si snoda in due diverse storie: da un lato la storia dello scrittore in un tour per promuovere il suo libro (che, guarda caso, si intitola proprio Che razza di libro!) e nel suo viaggiare attraverso gli Stati Uniti si imbatte nella figura di un Ragazzino, visibile solo a lui, che ama dialogare, fare domande e confrontarsi con lo scrittore. Un alter ego? Un alterazione della sua fervida immaginazione? La voce della sua coscienza?
E dall’altra si snoda la storia di Nerofumo, della sua famiglia e di tutti i suoi sforzi per diventare invisibile agli altri pur di proteggersi dai perfidi affondi dei compagni di scuola e del mondo esterno.

Solo alla fine del romanzo si scoprirà il reale legame tra i due personaggi mentre durante tutta la trama si esalta alla massima potenza la paura con la quale la popolazione di razza nera è costretta a vivere quotidianamente. Ma non era solo una paura, era una verità. Una verità dimostrata da generazioni. Una verità tramandata attraverso il mito e il mandato politico, dal passaparola alla legge. Ci sono corpi che non sono di chi li abita. Non lo sono mai stati e non lo saranno mai. Una verità persistente, inevitabile, spaventosa, conosciuta da milioni di corpi sfollati. La paura.

E sì perché Che razza di libro! è un romanzo sulla paura, quella costante, quotidiana, senza via d’uscita che ogni uomo, donna o bambino nero vive sulla propria pelle; è la paura che ha bisogno del Discorso che ogni genitore è costretto a fare ai propri figli perché non si nasce con la consapevolezza di essere nero ma la si acquisisce con il tempo, la si scopre quando si viene derisi, additati, isolati, bullizzati, sottoposti a vessazioni, marchiati. La paura è là fuori, nell’aria, lungo ogni strada, dietro ogni angolo come il protagonista che è cresciuto in una piccola casa, in una piccola città del North Carolina che non ha mai prodotto niente che avesse un valore, […] a parte stare immobile come una pozza di marea mentre il tempo fluiva tutto intorno.

La consapevolezza del colore della pelle dirompe in tutte le pagine e quando il protagonista realizza di essere effettivamente nero e si domanda che decisioni ho preso, che non avrei preso se non fossi nero? ecco che la forza dirompente di  Jason Mott non ha paura di sbattere in faccia al lettore la verità di come nessuno dovrebbe mai fermarsi a valutare il colore della propria pelle prima di agire, perché ciascuno dovrebbe essere libero di esprimere ciò che è realmente, cioè essere davvero visto, per ciò che anima la propria indole. Tutti, tranne gli uomini neri.

«Non puoi mai dimenticare che non appartieni più a te stesso, ma alle mani, ai pugni, alle manette e ai proiettili di uno sconosciuto».

Non mancano appunti diretti alla freddezza dei mezzi di comunicazione e dei social che riflettono immagini irreali dove diventa difficile identificare le persone come vere al punto che anche il dolore, la morte e la sofferenza si allontanano e diradano se non per quel minimo giusto tasso di solidarietà a quelle persone che non ho mai conosciuto e che non conoscerò mai. Mott ci sbatte davanti all’ipocrisia di una comunità social che ruota attorno ad uno schermo senza riuscire ad entrare in empatia con nessuno, dove si immobilizza e si globalizza ogni distinzione, dove tutto resta fermo, dove le notizie viaggiano veloci e il bambino morto è vecchio ormai di tre cicli di notizie.

Il tema del razzismo, il diritto di perseguire i propri sogni, l’indifferenza di una società ormai avvezza alla morte e al dolore, la necessità di apparire, la disperazione e l’istinto di sopravvivenza pervadono l’intero romanzo e Mott esprime la propria ribellione e una sana rabbia verso quel modo stantio e deteriorato, non più in grado di reagire davvero alle disparità che non hanno più alcun senso di esistere perché nessuno uomo nero americano è più schiavo e nessuno e più padrone.

Che razza di libro! è un grido di ribellione, è una voce fuori dal coro, è una penna poetica, spesso esilarante e quando meno te l’aspetti è una stilettata dritta al cuore. Un uso impeccabile degli aggettivi, anche quando sono ripetuti, trasforma il romanzo in una lettura di rara bellezza.

Che razza di libro! non solo merita di essere letto, ma andrebbe sottolineato e declamato ad alta voce per non perdere nessuna sfumatura, a prescindere dal colore della propria pelle.

«Dopo la morte del padre, la casetta in cui vivevano Nerofumo e sua madre era diventata più grande che mai.
Ed erano i vasti spazi vuoti che non c’erano mai stati prima a riempire la madre di Nerofumo di un’enorme tristezza».

Stefania Piumarta

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