Cien años de soledad è il romanzo da cui è cominciato tutto ed in qualche modo da cui si può sempre ricominciare. Me lo regalò mio padre, era suo, di quando era studente di medicina. È sempre stato un po’ sgualcito e con le pagine ingiallite, come se sia stato sempre un libro già letto da qualcun altro prima di arrivare a lui e poi a me. Con quel romanzo, mio padre mi ha regalato la lettura (e anche la scrittura) nel senso di un modo diverso, “magico” (non per il realismo magico), di leggere e di guardare alla realtà. La letteratura, sembra dire Márquez, è una specie di profezia di cui spesso non siamo capaci di cogliere il messaggio. Una predizione scritta con cento anni di anticipo, inascoltata e per questo solitaria, della solitudine più assoluta: l’incomunicabilità. Arriva come un vento potente che sradica ogni cosa e in quel vortice, noi continuiamo a leggere e a decifrare, imperterriti, perché sappiamo che lì, fra quelle pagine, c’è scritto anche il nostro destino. La comprensione sarà una specie di ultima immagine, mossa come l’impressione di una carrellata di immagini, prima di essere mangiati dalle formiche. Perché il nostro destino è irripetibile, non si può raccontare.

Anche per Carlotta Vagnoli, Cent’anni di solitudine è una lettura legata alle origini, ma in un senso molto terreno e poco metaletterario. Ce lo racconta in Memorie delle mie puttane allegre, testo della nuova collana di Marsilio, che si muove tra il memoir, lo studio di genere dell’opera di Márquez, tra interpretazione e attivismo. Le sue origini, dal lato materno, sono sulla costa degli Etruschi, in un paesino, Marina di Castagneto, protetto dalla pineta come Macondo. In questo memoir, Vagnoli ci fa entrare nel borgo toscano e per un gioco di specchi, dove le acque si mescolano, e assieme alle acque anche lo spazio e il tempo, è come se mettessimo piede a Macondo. E i personaggi reali di Marina, la proprietaria del ristorante, l’estetista, la nonna… diventano Ursula, Pilar Ternera, Remedios Buendía. In una lettura quasi “paranoica” della realtà in cui le esorcizzate della Maremma rimandano al destino di Sierva María di Amore e altri demoni e la prostituta che lavorava tranquillamente nel suo camper nella pineta di Marina, si confonde con Rosa Cabarcas e Delgadina di Memorie delle mie puttane tristi.

Da tempo i gender studies americani si occupano dell’opera di Márquez (dalle strutture narrative e spazio-temporali, ai personaggi, da Ursula, a Pilar Ternera a Remedios la Bella, ecc), analizzandone il carattere anomalo, e per alcuni “sovversivo”, rispetto alla letteratura occidentale e al canone letterario (per citarne uno, “Gender construction in Cien años de Soledad and La placa del diamant, A. Sybo, 2013). Rispetto a quell’establishment letterario che in Italia (da Pasolini a Fofi, non dimentichiamocelo), negli anni Sessanta sperimentava nuove vie, perché il romanzo era in crisi e snobbò l’opera di Márquez, definendola “manierista “e “barocca” (forse perché si sentiva attaccato). Questo nuovo filone interpretativo dell’opera che valse a Márquez il premio Nobel, si sofferma su quanto le sue donne siano capaci di allontanarsi dai ruoli di genere stereotipati, per rimanere però, sull’ultimo rigo, dopo un’analisi attenta e ragionata, uomini e donne: comunque imbrigliati in quei due destini, che il patriarcato vuole così netti e separati.

Vagnoli fa sua questa prospettiva invitandoci a scoprire quanto Marquez realizzi attraverso i suoi personaggi femminili, “un ribaltamento” degli stereotipi e normalizzi la narrazione della prostituzione, in un approccio “non proibizionista”; le sue puttane in realtà, scopriremo, sono, nonostante il titolo del romanzo di Marquez, allegre. Ursula, la capostipite della famiglia Buendía, è una donna di polso e pragmatica; la “matriarca” che veglia alla stabilità, continuità e alla pace di Macondo. Pilar Ternera, la prostituta che da due figli a José Arcadio Buendía, “rappresenta una nuova tipologia di potenza femminile che coincide con l’autodeterminazione del proprio corpo”. Remedios La Bella, una delle figlie di Ursula, che ascende al cielo in corpo e spirito, sarebbe il personaggio più libero del racconto. Le altre donne, da Amaranto, la figlia più piccola di José Arcadio e Ursula, a Rebeca (la bimba adottata che arriva con il sacchetto contenete le ossa della sua famiglia d’origine) non sono delle “viziate”, o delle “stronze viziate e bugiarde”, né personaggi “tetri” e “inquietanti”, ma, ci dice Vagnoli, figure “complesse”, “dicotomiche”. I capelli che crescono ancora e ancora sul cranio della marchesina Sierva Maria, torturata perché creduta posseduta dal demonio, continuano ad allungarsi come simbolo potente e commovente di ribellione.

Tutte portatrici di un “potere curativo” ma a cui nessuno da realmente ascolto, fino al declino e alla fine di Macondo. Loro, se fossero state ascoltate, se avessero potuto, avrebbe salvato Macondo e gli uomini della famiglia Buendía dal loro destino di solitudine e infelicità.

C’è un racconto (l’ho sentito in Spagna, in Portogallo e, del resto, l’ho visto mettere in pratica in Italia), secondo cui le comunità più rurali del Portogallo o della Spagna, sarebbero ancora o sarebbero state, in un passato abbastanza recente, dei “matriarcati”: perché lì le donne hanno sempre “comandato”, perché gestivano i soldi, portavano titanicamente avanti famiglie, negozi familiari, salvavano destini e comunità da sciagure. Come Ursula Buendía. “Mujeres con bigote”, le chiamano. Gli uomini (in questo racconto) sarebbero degli inetti, dei bambocci, ingenui e felici, manipolati, nel bene e nel male, da queste donne “potenti”. È evidente che tutti questi attributi non fanno di quelle società dei “matriarcati”, meno ancora delle comunità in cui i codici del patriarcato sarebbero addirittura ribaltati. Ma solo la triste replica di certi schemi conosciuti. Questo racconto l’ho sentito fare da uomini, con una velata ironia, che stava tutta nel non detto: lasciamo pure a queste donne, così forti e decise, così resilienti, un contentino, un piccolo riconoscimento, lasciamoci trattare così. In fondo, è il prezzo della nostra libertà, mentre inseguiamo leggeri l’alchimia, o un’altra chimera, i combattimenti di galli o il potere. In questo racconto (dell’esistenza di un supposto matriarcato) non c’è solo una velata ironia, ma tanti stereotipi (di matrice patriarcale) che non ribaltano proprio il resto di niente perché il matriarcato è una specie di leggenda, un sistema spurio: un patriarcato travestito da matriarcato. Perché il “matriarcato” è un sistema primitivo tanto quanto il “patriarcato”. Perché è abbastanza evidente che usare la maternità, e gli altri spazi di scarto lasciati secolarmente alle donne (dalla casa al letto della puttana) come strumento di potere e di influenza (quello che accadrebbe nella comunità precolombiana di Macondo) resta purtroppo sempre l’unica possibilità, lasciataci da qualcun altro. Senza una vera libertà, l’unica davvero rivoluzionaria: quella dell’autodeterminazione, lontana da pressioni e cliché.

Le comunità matrilinee e matrilocali non vanno confuse con il matriarcato che resta in parte un mito: un’ipotesi storiografica ed antropologica manipolabile (R. Briffault, J.J. Bachofen, H. Diner). In queste comunità dove le donne possono arrivare ad essere il “capofamiglia”, come spiega Adrienne Rich, gli elementi matriarcali restano “funzionali” ai valori patriarcali. Sono variazioni del modello patriarcale. Dalla tribù fino alla coppia borghese di liberi professionisti che pagano governanti e filles au paire per crescere i figli: perché in entrambe, la madre prepara i figli ad entrare senza ribellarsi nel sistema patriarcale.

I resti di una organizzazione sociale “ginecocentrica” (esiste tuttora in un luogo dell’Himalaya sulle rive di un lago, una tribù similmatriarcale, i Mosuo) e prepatriarcale ci tramandano (attraverso il vasellame, le statuette, ecc.) l’immagine di un principio femminile autonomo, non ancora addomesticato dalla gabbia patriarcale che piano, piano si va costruendo mentre esclude, tabù dopo tabù, la donna dall’atto di dar forma alla cultura.  Piuttosto che matriarcato (come sistema primitivo e speculare al patriarcato: al potere dei padri si sostituisce il potere delle madri), sarebbe più interessante (e forse in quella direzione va o sarebbe interessante fare andare l’opera di Márquez) pensare a questo principio femminile “creativo” (seguendo la strada aperta da Rich), a cosa lo contraddistingueva e contraddistingue. Il principio femminile che è sempre stato motore di civilizzazione, attorno a cui le donne hanno organizzato la vita familiare e comunitaria, il linguaggio stesso. Cien años de soledad sono anche le leggende familiari che la nonna di Márquez, Tranquilina Iguaran, gli raccontava da bambino nel villaggio di Aracataca.

Vagnoli abbraccia dunque l’idea di una parte dei gender studies che vedono nella narrativa di Márquez, una riconcettualizzazione del femminile. L’abbraccia e la spinge fino a dentro di sé, in questo suo sguardo agguerrito e tenero, a volte innocente, della sua personale Macondo.

Ma l’empatia di Márquez per le donne di Macondo e per le puttane (empatia che è quella con l’altro, con la cultura indigena precolombiana compromessa dall’invasore europeo) non è sufficiente a fare di quel mondo femminile uno spazio di ribellione. Se le donne sono importanti nel motore della storia, lo sono altrettanto i personaggi maschili. Il romanzo si apre su un ricordo che lega indissolubilmente il figlio, il colonnello Aureliano Buendía, a suo padre, quel giorno che lo portò a conoscere il ghiaccio. Ursula non può dissuadere suo marito José Arcadio a dissotterrare le monete per pagare le invenzioni di Melquiades (come nessuna delle nostre nonne ha potuto sempre convincere i loro mariti a non fare sciocchezze). Quando José Arcadio scopre che la terra è tonda, Ursula crede che siano stupidaggini da zingaro (perché non ha curiosità per la conoscenza). Gli uomini continuano ad essere uomini, ad uscire da Macondo, a combattere e a conoscere; le donne a custodire il segreto. Le donne a rappresentare la stabilità; gli uomini l’instabilità. Gli uomini continuano a dimenticare il passato; le donne a ricordarlo. Due destini separati, secondo un sistema binario, di ruoli attribuiti rigidamente, su cui si fonda tutto l’apparato patriarcale. Nulla cambia né può nella misura in cui l’altra metà, resta sottostimata; nella misura in cui la maternità e la crescita dei figli non si appoggiano finalmente su una società che si fa sostenitrice di questo “lavoro essenziale”; nella misura in cui la maternità (e gli altri spazi) continuano ad essere “a gender identity”.

Macondo finisce, perché Ursula muore, perché i capostipiti e la vecchia generazione muoiono, per colpa di nessuno, semplicemente perché il passato finisce. Macondo è la comunità arcadica che muore per le conoscenze e le tecnologie della nova era, quella del colonizzatore, che riescono, ineluttabilmente, attraverso le nuove generazioni, a penetrare la selva. Ma è anche lo spazio domestico, uno spazio che ristagna, il luogo della ripetizione, della ripetizione dei nomi, degli incesti e degli stereotipi. Le donne, Ursula e Pilar, hanno una conoscenza immediata e istintiva del destino umano, della solitudine della nostra ultima ora (della solitudine del poeta inascoltato), mentre gli uomini, arrivano alla conoscenza attraverso lo studio, la sapienza, la decifrazione delle pergamene dello zingaro; le donne conoscono il segreto della vita; gli uomini ci arrivano oppure no. Eppure, anche questa visione ripropone l’ennesimo stereotipo.

Forse le donne di Márquez, anche “le puttane”, sono, in fondo, infelici, proprio come gli uomini, o ancora di più, perché meno libere, ancora meno libere perché sono delle ragazzine, o delle belle addormentate, come Delgadina, l’ultima prostituta di Márquez. E nelle Memorie delle mie puttane tristi, il principe sarà ironicamente un vecchio giornalista novantenne che non sveglierà la ragazzina di cui finisce per innamorarsi nel bordello di Rosa, ma la contemplerà soltanto (probabilmente perché è impotente come il vecchio della storia di Yasunari Kawabata, The House of Sleeping Beauties, che Márquez cita in epigrafe). Perché Marquez forse sta cercando di confessarsi e di raccontarci quanto gli stereotipi modellano e distorcono le nostre fantasie e il contrario. Sta raccontando come una donna possa diventare solo un corpo senza voce, senza nome proprio (lui la chiamerà Delgadina): la fantasia morbosa di un uomo sempre voyeur, che sogna di trovare l’amore quello puro in un bordello, la bellezza in mezzo alla tristezza, la vita accanto alla fine. Forse è proprio questa condizione piuttosto tragica, più che la presentazione del postribolo come un luogo non proibito, il punto di partenza di una nuova interpretazione. Perché in quell’ossimoro tra il nome Delgadina (delicata) e il suo mestiere di “puta” (come già in Pilar Ternera, tenera ma solida come un “pilastro”) ci sono tutte le contraddizioni in cui ci dimeniamo sempre sul filo tra felicità e infelicità, amore e violenza, tra inferni che sono anche paradisi e paradisi ai confini con la notte.

Silvia Acierno