La donna rivendica la sopravvivenza come valore
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel
So they took root in her heart with their religious hunger
A. Sexton, Transformations
Annalena Benini ha scritto una storia radicalmente femminista nel senso di provare a dare a questo aggettivo, che sembra non essere più a fuoco, un significato concreto, di mostrarcelo e farcene sentire il peso specifico. Non il suono monotono di sottofondo ma il tonfo delle cose reali. Per capire meglio con quali esperienze e posture esistenziali confina davvero. Di fronte al rischio di ridurlo ad uno slogan, all’ennesima immagine commestibile, in questa ipercoscienza forse troppo isterica di quello che siamo sullo spettro delle possibilità. E mai come ora invece dobbiamo mettere a fuoco. Non restare sulla soglia delle possibilità ma provare a raggiungere il cuore delle cose, delle esperienze, dell’esperienza di una donna, di Annalena Tonelli, l’Annalena del romanzo. E provare ad arrivare lì dove il senso di sé e del mondo “si dilata e si moltiplica”. E sentire una profonda ammirazione per tanta forza e tanta libertà, senza tacere il fastidio però, una specie di irritazione che è la terrena misura della nostra mediocrità. E nonostante i nostri desideri così banali arrivare comunque vicino all’esperienza di una donna la cui vita è “un punto d’incrocio”, un’”oggettivazione della vita” (lo diceva di sé Hannah Arendt in quella famosa lettera a Jasper).
In questa storia dedicata ad Annalena Tonelli, ci sono molte donne: assieme a lei, ad affiancarla, Benini chiama Hannah Arendt e soprattutto Etty Hillesum. Perché nella piccola comunità africana in cui Tonelli dopo una vita trascorsa in Africa a curare la tubercolosi, continua, con una determinazione dolente ma instancabile, a prodigarsi per gli altri, per quella povera gente malata e affamata, abbandonata, disperata, per tutti quei bambini, per ognuno di loro, perché nessuna persona deve essere superflua, laggiù, in quell’altrove che mai come ora ci rendiamo conto di quanto sia “qui”, -lei come alcuni altri lo sapeva già-, di notte, notti senza materassi, in una vita senza vanità, concentrata sulle sole cose essenziali, due tuniche, il caffè per tenersi sveglia e poco altro, laggiù Annalena Tonelli leggeva e rileggeva le parole di Hillesum. Entrambe cuore pensante in mezzo alle baracche, su quella striscia “alla frontiera dell’umano”. Benini chiama Hillesum sulla pagina, a sostenere Tonelli, che in qualche modo leggendola continua a sostenere la giovane Etty nell’ultimo atto della sua vita, il campo di Auschwitz. In una concomitanza ed armonia tra la parola che viene detta e la persona che l’aspettava. Non è forse questo anche il senso profondo della lettura?
Poi tutte le altre sullo sfondo, da Simone Weil a Fallaci e Luisa Muraro, passando per Emily Dickinson, Virginia Woolf e Clarice Lispector: “le altre, le donne capaci di ogni cosa”. Una successione di pensieri e atti femminili coraggiosi, testardi e sabotatori. E ovviamente lei Benini che li mette assieme, li ricuce con quel suo narrare così suo, sbilanciandosi, perdendo continuamente l’equilibrio, sentendosi forte eppure così inadeguata (troppo terrena rispetto ad Annalena Tonelli, l’altra Annalena, che giovanissima ha lasciato una famiglia agiata per salvare il mondo, il Kenya e poi la Somalia, quel mondo che non vuole essere salvato nemmeno da se stesso). Divagando ma con la precisione di chi sa dove sta andando. “Cerco in lei qualcosa di più umano, di più piccolo, cerco di tirarla un po’ più verso di me”.
La scrittura femminile in questo caso sembra non provenire da pozzi che ingoiano lune, globi innocenti come grembi e interi destini, ma da un foro (che in fondo però è una specie di pozzo), quello praticato dal medico nel corpo della scrittrice per vuotare il polmone infetto in occasione di una brutta polmonite interstiziale. La storia prende l’avvio qui. Su un letto d’ospedale con due presenze femminili ai piedi. Un buco che ti trapassa, ti svuota e poi una scossa. Il pericolo di perdersi e di perdere le parole per raccontarsi e l’energia che ti slancia in avanti per raccontare finalmente senza tralasciare nessuna parola, neanche una parte di te. Non c’è stato risucchio, la trasformazione è avvenuta e il romanzo può scriversi.
Nel 1969 esce un testo di Carla Lonzi. Il titolo è Autoritratto. È un testo sperimentale, come tutto in Lonzi, avanguardistico come tutto in Lonzi, che ha smesso di fare una certa critica d’arte e letteraria quando persino Pasolini o Moravia la facevano ancora, che ha sviluppato il pensiero del femminismo della differenza (qualche anno prima che arrivasse Hélène Cixeus con Speculum e Ce sexe qui n’est pas un), ne ha scritto il manifesto (raccolto in Sputiamo su Hegel ed altri scritti appena rieditato da La Tartaruga) si è mangiata il tempo, il futuro ed è arrivata qui tra noi con la sua assoluta contemporaneità, quella delle grandi utopie che non si sono realizzate. Perché Lonzi come Tonelli è una pioniera, non ha paura di sperimentare, di stare alla frontiera e passarci tutta la vita. In questo testo avanguardistico, Lonzi lasciava la parola agli artisti, quel gruppo di pittori che frequentava in quegli anni, tra cui anche il suo compagno, lo scultore Pietro Consagra, ma soprattutto Carla Accardi, la pittrice con cui fonderà il movimento di Rivolta femminile.
Il saggio è la trascrizione della registrazione di conversazioni avute nel tempo con questi artisti perché per Lonzi la registrazione permetteva di non perdere nulla, di non lasciar cadere nulla; un processo chimico in cui si passa dal suono alla punteggiatura. Contro la divulgazione culturale (di cui i critici erano il veicolo primario, oggi lo sono gli stessi artisti in prima persona per mezzo dei social e delle riviste) che è sempre distorsione, alterazione della parola dell’artista. Nel 1970 Borroughs pubblicava The Electronic Revolution, e avrebbe chiamato tutti a girare i registratori e le telecamere contro le autorità culturali. Perché il punto è interrompere la narrazione, tagliare le frasi che portano con sé stereotipi e controllo.
Lonzi non ci sta dicendo che il gesto del critico è superfluo. In quella sua grande vocazione alla deculturalizzazione (che negli anni Settanta è stata anche una vocazione collettiva, penso a Sontag), sta decostruendo anche il gesto del critico, quello a cui l’Università di Firenze, con il suo maestro, il critico d’arte Roberto Longhi, l’aveva preparata, e che la società si aspettava da lei. Perché lei vuole muoversi su un altro piano. “Il pensiero che abbraccia un’altra categoria” scrive Benini a proposito di Annalena Tonelli, che, come Lonzi, è andata lontano da tutto ciò che era istituzionale, detestava interviste e cerimonie, tutta una perdita di tempo. Lonzi attacca l’atto critico come attività istituzionale e didascalica che giudica la creazione artistica senza condividerne gli umori, anzi volendoli piuttosto contenere. La critica che si fonda sulla distinzione menzognera tra arte e critica non ha senso. La critica come anticamera dell’arte non ha senso. L’artista è critico, scrive Lonzi, “naturalmente critico, implicitamente critico”. La scultrice Louise Bourgeois continua a ripetere: “A work of art doesn’t have to be explained. If this doesn’t touch you I have failed”.
Cosa tocca alla critica, allora? Un “montaggio”, come di un film, come il montaggio di un romanzo. La lingua che tiene uniti i frammenti, senza lasciar cadere niente, nemmeno una virgola.
E così non credo che Autoritratto sia un commiato alla critica, come pure è stato detto, a quella critica d’arte a cui Lonzi si era dedicata fino ad allora; ma piuttosto una parola nuova, l’occasione di un salto, il passaggio verso una prospettiva analitica più generale. Una visione della creatività più ampia in cui per “mettere a fuoco” c’è bisogno di tenere in conto quel “soggetto nuovo” fino ad allora estromesso. La donna. Rifiutare la critica d’arte (e l’arte) come parte del sistema, come istituzione, come celebrazione (di chi è già dentro al sistema) o scontro e persecuzione, vuol dire rifiutare il ruolo di spettatrice del gesto mitico dell’artista da sempre lasciato alla donna. Non si tratta di un commiato, ma è contestazione e fiducia di fare uscire l’arte (e la critica) da quel solito racconto secolare. Dai rapporti patriarcali. Legarsi all’artista in un doppio autoritratto.
Benini riconduce il bisogno di scrivere di sua zia ad una curiosità sua per la vita degli altri, per quegli incontri qualunque e fondamentali. Lo allaccia al desiderio della bambina di appropriarsi completamente della vita delle sue amiche, dalle loro stanze ai loro genitori. “Mi sono sempre innamorata degli altri, fin da bambina… volevo scoprire tutto, condividere tutto.” Anche Lonzi cerca di legare il gesto critico ad una sua tendenza sin da bambina ad “intromettersi” nella vita degli altri. “Per me l’atteggiamento critico è coinciso con un bisogno di intromissione nella situazione degli altri. Se io devo identificare un momento in cui si è manifestata quella disposizione che, poi, doveva diventare critica d’arte… da piccola, ai giardini pubblici, se vedevo, per esempio dei bambini con qualche grande che li sorvegliava, andavo lì a giocare, mi ricordo proprio col senso di non voler più tornare indietro”. Queste due pagine sul sentimento di estromissione e quello compensatorio della curiosità come radici del gesto critico (e artistico) restano tra le più interessanti di Autoritratto, la chiave di lettura. Benini scrive di questa curiosità verso gli altri come una forma di innamoramento, “volevo scoprire tutto, condividere tutto.” Si chiede Benini: dov’è in lei qualcosa anche di me? Perché lei sa di portare dentro qualcosa di Tonelli, nonostante la sproporzione. Si incontreranno nelle parole, quelle che Tonelli leggeva e scriveva nelle sue lettere, quelle in cui Benini ha fiducia: la scrittura per dar forma al pensiero e capire.
Tonelli e Lonzi due donne che negli stessi anni conducevano battaglie solitarie, radicali, libere. Che si muovevano entrambe su “un altro piano” rispetto alla cultura e al potere. E Benini che passa dal ritratto (che è una specie di tradimento) all’autoritratto, facendo leva sull’omonimia, Benini che mette a fuoco, che abbraccia una prospettiva più ampia…
E così tra lettere lette e rilette allo sfinimento per capire e non tradire, macchie di caffè, una polmonite che quasi l’ammazza, i libri segnati con i punti esclamativi e le sottolineature, i filmati, le conversazioni, e quella volta in cui si è arrabbiata così tanto, Annalena Benini ci mostra Annalena Tonelli. La donna che per quei somali che avevano faticosamente imparato ad amarla, era ultraumana. Ma soprattutto si lega a lei, come aveva fatto in I racconti delle donne, un collage di autrici amate, quelle su cui si è formato lo stile di Annalena Benini: la sua capacità di raccontare una storia d’amore in due pagine perfette in cui c’è la sproporzione del coinvolgimento (non è forse questo l’amore), troppo razionale lui, troppo eccessiva lei, ci sono le pozzanghere e i maglioni infeltriti che sono delle metafore insostituibili. Un lessico comune ad altre scrittrici: Joan Didion in cui la paura di perdere quella sua figlia adottiva, Quintana, trova il suo contrappeso nella frivolezza di una banale lista di cose da fare, il parasole di Porthault, quegli schermi che mettiamo tra noi e gli altri, tra noi e il tempo. Il calzino di Lydia Davis che fa da contrappeso al dolore. L’olio da bagno di Nora Ephron, i pettegolezzi di due amiche al parco o a un funerale, fino al bolo di Quchi di Caterina Venturini, che sono il contrappeso dell’esistenza, filtri del romanticismo, del dolore, della speranza, o dell’erotismo. Quella superficie a maglie strette della realtà, figli, mariti, amanti, tramezzini e uova, trappole, “il puré delle buste va bene”; tutto quello in mezzo a cui apriamo un varco per esistere, da cui arrivano “gli ultimi pensieri”. Le scosse che arrivano con una polmonite che quasi ci rimetti la pelle. “Un solo giro di vite nella carne”, avrebbe poetato Dickinson.
Benini fa della storia eccezionale di Tonelli una storia di donne, di amore, di un coraggio primordiale, di materno (come possibilità che abbiamo comunque dentro e nelle sue manifestazioni multiple), di nostalgia di mamma, di sete di mamma, di quelle madri che abbiamo rifuggito, mettendo acqua e terra tra noi e loro, quella di Annalena Tonelli così adorabilmente borghese, Divina (così era soprannominata in famiglia), sui tacchi fino alla fine. E quella sete resta aggrappata a un punto di dolore assieme al segreto bisogno di sostegno e di conforto, conficcato eppure evidente, almeno a lei, ad Annalena Benini che la sta osservando di lato, da un altro lato, quello da cui le cose e le persone ci parlano, quel lato con più rughe, più errori. Quel lato su cui le cose non cicatrizzano. E così Benini fa muovere quella pluralità di punti di vista femminili nella specificità dell’esistenza di Tonelli (e di ognuno di noi). E, come scrive Lonzi, “impasta anche se stessa” con la sua opera: scriversi nelle pagine che raccontano la sua protagonista, e ricrearsi assorbendola dentro di sé.
“Il femminismo vive in ogni documento lasciato da una donna che non avesse di mira l’inserimento nella cultura e nella società maschile”; “vive negli occhi di chi è in grado di leggere quel documento e non lo trascura”. Sono due riflessioni condensate di Lonzi, sono le coordinate di questo romanzo. Le pareti dell’interstizio attraverso cui colano la vita biologica muta e la bios-grafia, ovvero il racconto e la scrittura della vita.
Silvia Acierno
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