“Un luogo in cui, anche se a una età in cui è impossibile ricordare, o di cui il ricordo ci resta soltanto per apparizioni o brandelli, erano già state”
(Noi senza mondo, L. Pugno)
Le fiabe, prima di essere qualsiasi altra cosa, sono un pezzo della nostra infanzia. C’era una volta, stavolta vale anche per noi. Vivono laggiù, ci parlano da laggiù e, se ci lasciamo fare, ci riportano laggiù. Al confine con la meraviglia e l’orrore. Ce ne ricordiamo eppure sono cieche e buie perché appartengono a un’età che abbiamo perduto comunque. Camille Paglia ha scritto questa frase che mi ossessiona: “Grattate il favolista e troverete l’orrore della donna e della natura”. Soprattutto quel “grattare”: la favola per sua natura deve essere grattata, scorticata, assieme a lei dobbiamo toglierci qualcosa di dosso, scuoiarci di quel patetico io di oggi per provare ad accedere a quello di tanto tempo fa.
E conservare anche tutto il tempo che ci separa da laggiù, quello spazio in cui la fiaba è rimasta apparentemente immobile ma si è, spesso a nostra insaputa, autorigenerata. Le fiabe posseggono questa virtù, di crescere su se stesse, una specie di scatola cinese, in una irraggiungibile trasformazione (che non sono le pedanti varianti né le piatte riscritture): ogni lettura sarà piena di tutte quelle che l’hanno preceduta, eccetto una. Alla fiaba mancherà sempre il capitolo successivo, un fotogramma, quell’altro pezzo di noi che non abbiamo ancora sognato perché non siamo ancora nati.
Cercare la verità a proposito delle fiabe (quella di Biancaneve e di tutte le altre) mi sembra allora davvero vano, ancora più vano e pretenzioso che cercarla, la verità, tra le realtà o le loro macerie (anche se lì abbiamo rinunciato a cercarla perché ci fa più comodo). Così ha ragione Paola Cortellesi che, nella lectio inaugurale alla LUISS, ha scosso un po’ le acque, dicendo quello che ha detto e che per giorni è circolato sui social e nei salotti giornalistici delle varie reti, che oramai sono una propaggine dei social. Ha ragione quando fa ironia su Biancaneve che in fondo è una specie di colf dei nanetti, ecc. Anche se il vero gesto ironico della regista è stato forse parlare di fiaba proprio alla LUISS, lì all’apertura dell’anno accademico, lì sulla soglia così ufficiale dell’età adulta, quando le fiabe è meglio riporle nel cassetto, perché quello che dovevano insegnare l’hanno già insegnato. Siamo cresciuti, oramai!
Ma ha ragione anche la scrittrice Simona Vinci quando scrive che Biancaneve “non è quella che fa da serva ai nani, ma è quella che ha il coraggio di scappare da sola nell’ignoto del bosco per sfuggire a un destino di morte”. O Jonathan Bazzi quando, ammaliato da principesse e sirene, vede nel principe azzurro nient’altro che un burattino. Abbiamo tutti ragione quando cerchiamo di interpretarle le favole, non di riscriverle per i tempi moderni, in cui è essenziale non offendere nessuno anche se poi ci dedichiamo ad odiare tutti. Abbiamo tutti ragione quando cerchiamo di ricordarle, non quando ci rinunciamo o chiudiamo la questione pensando di aver già detto tutto.
Rinuncia chi crede che le favole siano neutrali, intoccabili, un archetipo: ovvero un nido inestricabile di timori e sogni primari, impenetrabile e inamovibile. La fiaba è semmai una visione d’archetipo, un incontro con l’archetipo, con quelle immagini primarie (l’eroe, il drago-uroboro, la grande-madre, strega e matrigna, ecc). Un’elaborazione del nostro inconscio individuale e collettivo e in questo senso un prodotto culturale antichissimo, come tale comunque compromesso, stereotipico, interpretabile, riscrivibile… Del resto sono convinta che gli archetipi, quelli che portiamo blindati inconsapevolmente nel nostro essere più profondo, saldati a quell’unità psichica primaria da cui proveniamo, sono stati dei “falsi maschili”: non anteriori al sodalizio tra uomini ma frutto di quel sodalizio. Gli archetipi sono gli strumenti di cui la cultura prepatriarcale si è servita per costruire la differenza tra maschile e femminile su cui si fonda la cultura patriarcale. I lupi sono già stati rinchiusi tra le pagine, l’uro è stato addomesticato. La scatola nera e inconoscibile è altrove, forse più che custodita nella grotta, è una proiezione che ci scavalca (leggete Noi senza mondo di Laura Pugno).
Come scrive Eric Neumann, psicologo berlinese, allievo di Jung: l’eroe che libera la vergine dal drago (di cui sono piene le favole) è il maschile che “trasferisce il femminile nei propri domini, quelli del ‘patriarcato’” (La psicologia del femminile).
Trasformazioni è il luogo in cui la poetessa Anne Sexton racconta le fiabe, quelle classiche dei fratelli Grimm, a cui si aggiunge la sua, che sta sullo sfondo della raccolta, o ne è la somma. La sua che è una fiaba crudele come quelle dei Grimm, o forse ancora di più. Nella sua, fiaba, nella sua vita ci sono due genitori ricchi e alcolizzati, c’è una prozia amata con disturbi psichiatrici, e poi c’è lei bellissima e disturbatissima. La gonna plissé bianca così bon ton, così squisita, due figlie, un marito, quegli occhi voraci e tristi, gli amanti a gogó assieme agli psicofarmaci, e quel bicchiere tra le dita, come l’ultimo, come l’ultimo di una serie di tentativi di suicidio, quel bicchiere che le hanno messo in mano i genitori: lì dentro lei sciolta, subacquea, comatosa, eppure viva. Lei è schiava, principessa, regina, nata-morta (wanting to die), come quelle principesse nelle bare di cristallo. La strega disillusa che racconta le fiabe, perché quel ragazzino e quella ragazzina che ora sono cresciuti non hanno capito, quelle favole le hanno dimenticate o non gli sono servite, e ora vogliono delle risposte, le esigono.
Sexton resta fedele alle favole, la trasformazione avviene per mezzo della poesia (e in una galleria di metamorfosi, anche attraverso le scelte della traduttrice Rosaria Lo Russo). E così tornando a quella Biancaneve dei Fratelli Grimm, con Sexton potremmo indugiare sulla purezza, su quel candore doppiamente bianco, che si riassume in una parola: “verginità” (che è sempre stata una forma diabolica di ipersessualizzazione). Sui lupi famelici nel bosco, con la lingua penzoloni. Sui nani che non se la cavano meglio che nella versione di Cortellesi: stavolta sono dei “little hot-dogs”. Su quanto Biancaneve sia una stupidina, a dumb bunny che continua ad aprire la porta alla regina nonostante gli avvertimenti dei nani. Sul pezzetto di mela avvelenata che vola via dalla gola per caso, per le buche e le scosse del sentiero mentre il principe sta trasportando la bara di vetro al suo castello. Non c’è bacio dunque. Ma soprattutto su quel destino che si ripete: “Meanwhile Snow White held court/ rolling here china-blue doll eyes open and shut / and sometimes referring to her mirror as women do.” Perchè in fondo la vera protagonista del racconto è la regina: quello che Biancaneve diventerà, in un ciclo infinito. Perché tutte noi siamo state Biancaneve. Congelate in quella trappola perversa dell’invecchiare, che dalla notte dei tempi sembra essere per noi donne una specie di maleficio, capace di trasformarci in streghe cattive.
Più che trasformazione, qui accade una vera deflagrazione, una meravigliosa e necessaria decostruzione: al diavolo tutti questi tristi canoni e riti di passaggio del patriarcato. Le fasi attraverso cui il femminile si è arreso al maschile. Eccole in tutta la loro acerba fissità.
Mille e una notte simbolizza in qualche modo la capacità della fiaba di nutrirsi di sé all’infinito. Ma anche di quella violenza o crudeltà che sta sotto, come dice Paglia. “Il narrare o il contarstorie è ciò che gli uomini fanno quando si ritrovano fra loro. È un rituale di blandimento, uno spostamento dei conflitti a cui dà luogo la vita degli uomini con le donne”. Con le sue storie Sherazade cerca di fermare la mano assassina del sultano, un omicida in serie, che si è macchiato di molteplici femminicidi: quello della moglie di cui era morbosamente geloso e quello di tutte le altre amanti-mogli che sono seguite, che avrebbe ucciso dopo averle possedute, senza più placare la sua furia. Sherazade salva se stessa e le sue sorelle d’anima. Difficile accettare che in fondo siamo sempre fermi sullo stesso punto, sulla stessa gelosia, lo stesso affanno di possedere e dominare la donna, sulla stessa barbarie. Meglio far finta di niente, che le favole sono favole, che tutto il resto è una “puttanata” come diceva alla radio Cruciani a proposito della boutade di Cortellesi.
Alle mie bambine, l’antefatto delle Mille e una notte non piace per nulla, tutto quel sangue. Quando si stringono a me, – che sto lì in mezzo a loro due, la faccia nel libro, pronta a leggere una o due storie, e mi dicono di saltare quella favola, di leggere quella di Tam Lin, con Jane che va nel bosco e lotta con quel principe incantato che nella lotta si trasforma in mille bestie e lei lo doma senza stancarsi fino all’alba, fino a quando l’incantesimo sparisce-, so che c’è bisogno di aggiungere alle parole, altre parole. Immaginarci un’altra storia.
Tornando alle Mille e una notte, alla fine la violenza non si abbatte sulla principessa, le storie e l’immaginazione salvano Sherazade, ma soprattutto salvano il sultano, lo educano, lo fanno tornare uomo capace di amare. Che tutto cambi, allora (non la riscrittura per salvare il politicamente corretto). Le favole poi non sono fatte solo di parole, fanno tutt’uno con chi ce le ha raccontate, con il tono di chi ce le raccontava, la pazienza o l’impazienza di quell’ultimo gesto prima di dormire, con il vento che tirava fuori, con le lenzuola fredde, con quella favola raccolta da Calvino che proprio non vogliamo più sentire perché ci terrorizza, con la manina che cerca ancora il tepore del seno, prima di farsi latte dei sogni, allungarsi, rimpicciolirsi, trasformarsi.
Silvia Acierno
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