Da piccoli si giocava al “facciamo che ero …”. Non so se si usa ancora tra i bambini. La compagna di giochi proponeva “facciamo che io ero la parrucchiera e tu la signora”; il compagno di giochi voleva fare che lui era il bandito e io l’indiano. In ogni caso si trattava di un gioco serio in cui bisognava interpretare il ruolo accettato, altrimenti si era una “mammazilla”.

A cinque anni ero già stata parrucchiera, fruttivendola, signora, moglie e indiano malfido. Il divertimento consisteva nell’esserlo fino in fondo, altrimenti il gioco non ingranava.

Con i libri di Antonia Byatt funziona allo stesso modo: lei è la compagna di giochi che propone “facciamo che ero…”, chi legge accetta ed entra a far parte del gioco, non come semplice lettore che si immedesima nei personaggi, ma come partecipe del divertimento, prodotto dalla creazione di quei personaggi e del loro mondo.

Immagino la professoressa Antonia S. Byatt, nata Drabble, tra gli anni ’60 e ’90 del ‘900, terminato il suo lavoro di docente di Letteratura Inglese e Americana al London College, ascoltati e data attenzione ai suoi quattro figli, dato retta anche ai suoi mariti (al primo da cui divorzia e poi al secondo), sedersi finalmente, di sera, a scrivere i suoi racconti e romanzi, dicendo a se stessa e a chi leggerà: giochiamo! Imperativo dell’immaginazione.

I suoi personaggi sono principalmente femminili, una in particolare, Frederica Potter, è il suo avatar, protagonista del quartetto di romanzi La vergine nel giardino, Natura morta, La torre di Babele, La donna che fischia, tradotti, come tutti gli altri, mirabilmente per Einaudi da Anna Nadotti e Fausto Galuzzi. Frederica è un’altra sé, personaggio realistico che si evolve e si emancipa, come donna, sul finire del secolo scorso e che vive in una dimensione parallela, accompagnando per lungo tempo la vita reale della scrittrice. Frederica è ogni donna forte, madre, moglie che evolve e diventa consapevole di sé attraverso il lavoro intellettuale.

Altre donne avatar di Antonia Byatt, forse quelle che le hanno dato maggiore divertimento d’invenzione, sono figure fanta-realistiche che le hanno permesso di vivere tutte le vite possibili e impossibili, grazie al meccanismo giocoso dell’imperfetto della irrealtà. La dottoressa Gillian Perholt, per esempio, protagonista del racconto Il genio nell’occhio dell’usignolo, è una donna che vola, una cinquantenne che ama viaggiare in aereo e raggiungere paesi lontani, dove la porta la sua fama di narratologa. Partecipa a convegni internazionali, in cui argomenta della paziente Griselda, di ginn e ginniyah, pescatori, desideri, ostacoli e scimmie magiche, finché nella stanza dell’hotel, ancora in accappatoio dopo la doccia, si materializza un incantevole ginn, in carne, ossa e pelle verde, tutto per lei. Patricia, di Lacrime di coccodrillo, nella raccolta Zucchero ghiaccio vetro filato, è una donna che scappa. Dopo una lite con il marito a una mostra d’arte in una galleria londinese, Patricia si attarda per una mezz’ora ancora ad ammirare i quadri. Quando va verso l’uscita, in fondo alle scale c’è un uomo a terra, medici che cercano di rianimarlo, fuori un’ambulanza. L’uomo è suo marito, indubitabilmente morto. Lei quasi lo scavalca, chiama un taxi e va via. Quella sera stessa sarà su un treno che la porterà in Provenza, dove la sua vita prenderà un’ulteriore piega inattesa. Maud Bailey, filologa e studiosa di poesia vittoriana, è la donna detective che si avventura in un mondo fatto di libri, lettere ritrovate e relazioni clandestine, sulle tracce della poetessa Christabel LaMotte, mai esistita, frutto della meticolosa fantasia di Antonia Byatt, di cui è la versione passionale e romantica, giovane protagonista di Possessione. Una storia romantica.

I personaggi femminili, inventati da questa immaginifica scrittrice, sono sempre accompagnati da personaggi maschili, mai nemici, anche quando in conflitto, sempre alla fine positivi e spesso coprotagonisti.

La vita reale della Byatt è stata una vita complicata, come quella di tutte e tutti, ma non entra mai nei suoi mondi di invenzione. Antonia Byatt non scrive contrita e piegata sul suo dolore, non cura le piaghe della vita, inventando storie in cui esprimersi o specchiarsi. Scrive storie quotidiane e straordinarie che le allargano la vita, semplicemente la moltiplicano. Le storie non allungano la vita, ma la allargano, la dilatano, facendola strabordare in vite altre in cui facciamo che eravamo qualcun altro. Un gioco di sana alienazione per conoscere e imparare da esperienze plurime. Si conclude la lettura di un libro della Byatt con un senso di pienezza e con un sorriso, sempre. Non perché le sue storie siano umoristiche, ma perché sono ricche, succulente e gustose per la mente e per l’anima. Leggendole, si prova il terribile brivido di gioia della creazione divina, perché da ogni vita narrata ne nascono altre e altre ancora; ogni storia inventata dall’autrice ne richiama altre, all’infinito.

Quando ci siamo incontrate a maggio del 2000, lei era una morbida sessantenne, calma e sorniona che godeva del suo successo di scrittrice in Italia; io interpretavo il ruolo della donna moderna, incinta alla trentottesima settimana, ma ancora a lavoro. In quell’incontro, che avevo organizzato alla Scuola Holden di Corso Dante, accennò di sfuggita alla sua vita. Era sempre stata un’accademica, una borghese appassionata d’arte, aveva sposato uomini borghesi, amava passare le vacanze a Mentone, dove aveva una casa. I libri li aveva scritti quando era più giovane, dopo il lavoro all’università. All’epoca le figlie erano piccole, le lasciava con la babysitter e se ne andava in biblioteca a studiare e a scrivere. Niente di che, disse, una vita ordinaria. Non parlò del dolore della perdita del figlio Charles, morto a undici anni per un incidente stradale, non disse che per altrettanti undici anni non era riuscita a scrivere una riga; non parlò del divorzio dal primo marito, l’economista Sir Ian Byatt, né del secondo matrimonio con il signor Duffy. Non accennò neppure alla rivalità con sua sorella scrittrice, Margareth Drabble, più famosa di lei nel mondo anglosassone. Quindi non scoprimmo che Drabble era il suo cognome da nubile, né che in quel periodo si chiamava Duffy e che ad ogni cognome corrispondesse una vita.

Alla voce Antonia Byatt, nelle enciclopedie che parlano di lei, si legge anche che l’anno prima di quell’incontro aveva ricevuto il titolo di duchessa di Morpho Eugenia, cioè Dame, conferitole dal re di Redonda, un’isola disabitata della Antille, appartenente allo stato di Antigua e Barbuda. Si legge inoltre che per aver scritto Angeli e insetti -un libro fatto da due ingegnose ed erudite novelle- è stato ribattezzato in suo onore un coleottero la Euhylaeogena byattae Hespenheide, appunto. Nella vita oltre la morte, avvenuta il 16 novembre 2023, Antonia Byatt è conosciuta come Dame Antonia Susan Duffy e chissà quante altre vite continua a creare nel multiforme spazio dello spirito, cambiando nome e sembianza a suo piacere.

Maria Antonietta Nigro