Scrive Giulio Mozzi nella sua introduzione che “la scrittura di Dedja […] provoca in chi legge reazioni contrastanti, contraddittorie, eppure dà alla fine, non posso negarlo, un intenso, sensuale piacere. Che è il piacere della conoscenza […]”.
Lo stesso Dedja, nella premessa, avvisa di come l’Autore vuole emulare e battere il padre e il nonno, come lui medici albanesi, e che si sono fatti un nome che resiste nel tempo: Dedja confida che tale Trattato gli permetterà di arrivare alle stesse vette.
E già qui, in queste due affermazioni disgiunte ma che si possono riunire, abbiamo, credo, la chiave interpretativa di questa raccolta di racconti. Chiave a due facce, così come è un Giano bifronte lo stesso Dedja, medico e poeta. Mozzi parla della crudeltà insita nelle due professioni, entrambe disconnesse dal quotidiano: il poeta perché preveggente e il medico perché abituato alla sofferenza.
Dedja dà l’impressione di voler cavalcare tale crudeltà/crudezza (dicotomio sempre mozziano) anche in certe descrizioni splatter del pronto soccorso albanese dove lavora, giovane medico alle prime armi: guerre fra gang che producono teste mozzate e arti volanti, proiettili conficcati nelle parti più impensate del corpo umano, con chirurgi e infermiere che badano solo a fare il loro lavoro tenendosene fuori e marcare il loro territorio rispetto ai concorrenti ospedalieri. Altre scene raccapriccianti riguardano la disputa dei crani da parte degli studenti di medicina, il traffico di cadaveri dei custodi o tecnici specializzati, medicine da riciclare come droghe e così via.
Largo uso è fatto dell’ironia, come arma per combattere l’amarezza sconsolata che porterebbe vedere solo il nucleo primario di questi racconti della vita quotidiana medica, in una situazione come quella albanese dei tempi, in cui può capitare di ritrovarsi ostaggi della faida trasportata dalla sfida di calcio della Champions League al reparto di emergenza, con la polizia inutile e impotente sullo sfondo. Ma pure morte di neonati siamesi o di bambini febbricitanti e arrivati già morti alla casa del medico condotto, in mezzo alla neve, con il padre che pensa solo a seppellirli al più presto possibile per levarsi l’impiccio, facendosi aiutare dal fratellino grande sopravvissuto.
Ma l’ironia come antidoto, si diceva, e allora ecco anche i racconti dedicati alla denuncia mediante conferenza stampa del primario di Pronto Soccorso sulla pessima situazione dei WC in tutto il paese, che causano morti e annegamenti nei cessi, al Phallus, l’elenco degli oggetti ritrovati nei peni di vari pazienti (Dedja era urologo) , in cui spicca una chiavetta USB.
E le risate vengono, leggendo di situazioni scabrose in cui poco ci sarebbe da ridere, ma pure qui sta la bravura dell’autore che riesce a coinvolgere il lettore, senza quasi che lui se ne accorga, in quella sorta di voluttuoso e perverso piacere di cui parlava Mozzi. Se non sono risa, si tratta di sorrisi amari di fronte alla constatazione di come pure davanti alla morte e alla sofferenza l’essere umano sia capace di coltivare l’arte dell’ironia, e anzi forse proprio quest’ultima è ciò che serve per conservare sia la salute mentale che una forma di empatia.
E pure lo stile si piega a questo proposito, cambiando e facendo evoluzioni fra un racconto e l’altro, cercando soluzioni adatte ad ogni contesto, che sia la conferenza sullo stato nazionale dei WC o il racconto dell’assalto al Pronto Soccorso con kalashnikov o altre armi mortali. Rimangono nella testa felici ispirazioni, degne del Male oscuro di Giuseppe Berto, come il racconto Morgue, svolto tutto in una frase che prende quattro pagine e mezza.
In conclusione, un libro da leggere, magari centellinandolo, ché i racconti rimangono a lungo nella testa e anche parecchi giorni dopo la lettura ci si ritrova per strada a fare un sorriso pensando a una delle situazioni bizzarre che possono capitare in un pronto soccorso albanese.
Matteo Polo
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