«La cucina luccicava. Fonti nascoste di energia alimentavano gli elettrodomestici: il frigorifero, i due forni, il microonde, le due lavastoviglie.»

Queste due righe si trovano a pagina 48 dell’edizione Garzanti (Elefanti) di Il dono di Asher Lev, ovvero il secondo dei due romanzi che Chaim Potok dedica al personaggio di Asher, bambino nato con il genio della pittura nella piccola comunità ebraica chassidica di Brooklyn.

La mia ammirazione per Potok si è trasformata, leggendo quel passaggio, in qualcosa di diverso: nella consapevolezza di aver trovato un amico.

Parto dall’inizio, perché ovviamente non è la frase in sé, ma il modo in cui ci si arriva.

Asher Lev è il protagonista di due romanzi: Il mio nome è Asher Lev e Il dono di Asher Lev, che sono l’uno la prosecuzione dell’altro. Nel primo romanzo incontriamo Asher bambino, alle prese con un talento incontrollabile per la pittura e con la difficoltà di farlo accettare dalla rigida comunità in cui è nato e che considera l’arte figurativa nella migliore delle ipotesi una perdita di tempo, nella peggiore una manifestazione del maligno.

Quanto più il talento di Asher, che trasforma in disegno tutto ciò che gli capita a tiro, inizia a farsi notare, tanto più cresce la diffidenza della comunità nei suoi confronti.

Il più accanito nemico del talento di Asher è suo padre, stretto collaboratore del Rabbino a capo della comunità e fermamente convinto che suo figlio debba dedicare le proprie energie solo allo studio della Torah, così da potere, a tempo debito, prendere il suo posto accanto al Rabbino.

Asher, pur avendo grande rispetto per l’attività del padre, non ha modo di tenere a freno il proprio talento.

Con intelligenza, è proprio il Rabbino a capire prima di tutti che il genio di Asher non può essere contrastato e ad affidare quindi il ragazzino a Jakob Kahn, scultore espressionista amico di Picasso, ripudiato dalla comunità chassidica e rimasto tuttavia in ottimi rapporti con il Rabbino. Accanto al suo nuovo maestro Asher, ormai adolescente, viaggia per l’Europa, si fa notare dalla comunità artistica e scopre il tema pittorico che lo renderà grande e, contemporaneamente, farà esplodere il conflitto con la famiglia e con tutta la comunità: la crocifissione.

Il primo dei due romanzi dedicati ad Asher Lev termina con una sua mostra personale, organizzata nel pieno centro di New York: tutti i quadri che la compongono sono rielaborazioni dei ricordi d’infanzia di Asher e, proprio alla fine del percorso, ci sono due crocifissioni, il capolavoro della mostra. Times, Newsweek, Sunday Times, tutti annunciano con enfasi l’evento imminente, collezionisti e musei hanno già opzionato o acquistato la maggior parte dei quadri esposti: Asher è fra i grandi della pittura e persino l’ostilità del padre inizia a vacillare («è difficile per tuo padre odiare qualcosa che il mondo sembra stimare tanto»). Nell’ultimo giorno della mostra, i genitori di Asher, combattuti tra la diffidenza verso quel mondo profano e l’orgoglio per il figlio, vanno a vedere l’esposizione: li vediamo emergere dall’ascensore, storditi per la gran folla, increduli che tutto ciò che sta accadendo intorno a loro sia dedicato ad Asher; lui li raggiunge nella calca, li prende sottobraccio e lentamente li conduce lungo la galleria; i suoi genitori sono turbati, ma non offesi, dai primi quadri che vedono (il padre si era sincerato che non ci fossero nudi); in fondo alla galleria troveranno le crocifissioni. Non avevano idea che loro figlio avesse dipinto delle crocifissioni (lui, un Ebreo chassidim!), non avevano idea di cosa lui avesse raffigurato in quelle crocifissioni.

Non racconto i dettagli, a beneficio di chi ancora non avesse letto il libro: dico solo che, nella mia memoria di lettore, il corridoio della mostra di Asher Lev a New York si confonde, assurdamente, con quello dell’Overlook Hotel, percorso da Danny Torrance con il suo triciclo, in Shining. In entrambi i casi leggi e speri che intervenga qualcosa a impedire ai protagonisti di arrivare in fondo: un imprevisto, una chiamata imprevista per il padre di Asher (dannazione, è uno degli uomini più impegnati di tutti gli stati uniti, non potrebbero chiamarlo adesso per una riunione urgente!). Invece niente, in entrambi i casi si arriva fino in fondo al corridoio: le gemelline di Shining cadono a terra in pezzi, la madre e il padre di Asher vedono le due crocifissioni.

Finisce il romanzo, Asher viene allontanato dalla comunità, si trasferisce a Parigi.

Inizia il secondo romanzo (Il dono di Asher lev), Asher torna a Brooklyn per la settimana del lutto legata alla morte dello zio e ritrova i genitori dopo la lunga separazione legata a quei due quadri.

Arriviamo così alla frase che ho riportato all’inizio: le fonti nascoste di energia.

Asher e suo padre sono in cucina e, dopo tanto tempo e con estrema fatica, ricominciano a parlare. La distanza fra essi è incolmabile, ma provano ugualmente a colmarla: parlano di arte, di Picasso, dei progressi di Asher, della comunità di Brooklyn e della difficoltà del padre a svolgere il proprio lavoro di sostegno al Rabbino dopo la morte del fratello. È un dialogo bellissimo, che sarebbe da portare a esempio in qualsiasi corso di creative writing: ogni frase di Asher scuote le certezze del padre; ogni frase del padre scuote le certezze di Asher. Raramente le battute di questo dialogo si corrispondono con esattezza, perché ciascuno dei due personaggi, dopo essere stato interrotto dalla battuta dell’interlocutore, conclude il proprio ragionamento e registra solo in seguito ciò l’altro ha detto (così accade quasi sempre nei dialoghi della vita reale, e molto di rado nei dialoghi dei romanzi).

A un certo punto il padre di Asher Lev dice: «Il Rebbe è vecchio, Asher. Il Rebbe è stanco. Non tutti ascoltano sempre il Rebbe». Asher è turbato: ha visto diverse suo padre infuriato, triste, esaltato, severo, allegro, ma non l’ha mai visto, nemmeno una volta, vacillare o dubitare.

Non sa cosa rispondere e infatti non risponde.

Il padre prosegue: «Ci sono volte in cui penso che…».

Lascia la frase a metà, sospira, sbatte le palpebre, si guarda intorno, mentre la cucina si riempie di un silenzio denso e carico di attesa. O meglio, io, che non so scrivere, lo chiamo “silenzio denso e carico di attesa”, Chaim Potok invece scrive: «La cucina luccicava. Fonti nascoste di energia alimentavano gli elettrodomestici: il frigorifero, i due forni, il microonde, le due lavastoviglie.»

Quando siamo in attesa di qualcosa (di sapere come nostro padre terminerà la frase, in questo caso), non siamo mai solo in attesa: il nostro sguardo si posa sempre su qualcosa, la nostra mente registra informazioni (la cucina luccicante) e produce pensieri (i cavi nascosti che alimentano gli elettrodomestici), magari assurdi o del tutto slegati dalla situazione che stiamo vivendo.

Poche righe più avanti, il padre di Asher si interrompe di nuovo e la voce narrante, che è poi la voce in prima persona dello stesso Asher Lev, dice così: «Tacque. Il frigorifero prese vita, riempiendo tutta la cucina con le sue vibrazioni sommesse».

Se questa sera, dopo cena, proverete a interrompere di colpo la conversazione con chi vi sta accanto (o a spegnere la televisione se siete in casa da soli) e vi metterete in ascolto di quel silenzio improvviso, sentirete una molteplicità di suoni sommessi e quotidiani, cui normalmente non facciamo caso: il ronzio del frigorifero, lo sgocciolare dei termosifoni, la ventola del computer.

Sono quei suoni sommessi, il fatto stesso di sentirli, che ci permettono di misurare l’intensità del silenzio.

Ricordo molto bene, anche se è passato molto tempo, quel che ho pensato subito dopo aver letto la frase sulle fonti nascoste di energia che alimentavano gli elettrodomestici nella cucina della famiglia di Asher Lev. Ho pensato che non c’era nulla di straordinario in quell’osservazione: tutte le cucine del mondo sono alimentate da fonti nascoste di energia. Ma ciò che era straordinario era che Potok avesse deciso di aggiungere quella frase, apparentemente priva di senso, alla scena. Poteva decidere di scrivere qualsiasi altra cosa per sottolineare quel silenzio, oppure poteva decidere di non sottolinearlo affatto. Invece ha deciso di far entrare nella scena, di soppiatto, senza enfasi, il brusio degli elettrodomestici e il luccicare della cucina. Altre scelte non sarebbero state necessariamente peggiori di quella, ma intanto una scelta era stata fatta e, poiché l’autore l’aveva fatta per me, per farmi sentire maggiormente partecipe di quella scena, ho provato un moto di gratitudine nei suoi confronti. Soprattutto perché, me ne rendevo conto in quel momento, quelle attenzioni per me l’autore le aveva avute in ciascuna delle pagine del primo romanzo e nelle prime quarantotto del secondo. Tutte le pagine di tutti i romanzi di Potok sono piene di dettagli, oggetti, rumori, odori, scorci di paesaggio, che l’autore si prende la briga di inserire nella narrazione come gesto di attenzione nei confronti del lettore, così che egli possa sentirsi in empatia con i personaggi, così che egli possa avere l’impressione di essere seduto, invisibile, su uno sgabello di quella cucina in penombra, in attesa di scoprire se e come il padre di Asher terminerà la frase.

Qualcuno potrebbe obiettare: «be’, non c’è molto di straordinario in questo: si può dire la stessa cosa di Stephen King, Thomas Mann, Dostoevskij, Conrad, Stevenson, Murakami.»

Sì, è vero. E me la chiami un’obiezione?

Luca Lissoni