Il Premio Strega ha da poco individuato in Donatella Di Pietrantonio la sua vincitrice di questa edizione targata 2024, ricca di spunti e anche di polemiche, tra plausi e critiche, tra le grandi case di moda che hanno vestito i sei finalisti e le accuse di spettacolarizzazione della letteratura, intoccabile nel suo dover abitare le nevrosi e le pulsazioni del sottosuolo per i più. Una competizione che quest’anno ha fatto molto parlare di sé, riportandoci ad un agonismo e innescando critiche letterarie che rimandano alle stroncature d’oltreoceano.
Li abbiamo visti lì, a proprio agio e perfettamente integrati nel loro ruolo di intellettuali i sei finalisti. Da Valerio a Voltolini a Di Paolo e Di Pietrantonio passando per Giartosio e Romagnolo, gli scrittori selezionati hanno tenuto i cartelli sui quali campeggiava la scritta- i libri sono in gara gli autori no – e ci chiediamo, sulla scia di questa edizione così combattuta tra super favoriti e scoperte inaspettate, se in fondo forse tra i libri in gara avrebbe meritato di vincere quel viaggio così sbalorditivo e rapinoso messo a punto da Tommaso Giartosio.
Autobiogrammatica, edito a minimum fax è un’opera monumentale che esplora il linguaggio intimo e collettivo regalandoci la storia di una vita attraverso il mondo delle parole, che determinano relazioni e aspirazioni e cedimenti e sogni. Giartosio si è spinto oltre la mera trama, ha valicato l’intreccio narrativo per sigillare un piccolo capolavoro. È questa la vera essenza del merito letterario? Andare oltre il già visto (pure se lodevole), il già letto (pure se con note nuove), il già in qualche modo messo in opera per dare vita ad una sperimentazione, ad una sintesi davvero unica?
In questo senso sì, meritava di vincere. Meritava di vincere per le domande che il suo libro si è posto, ci ha posto.
Si può ripercorrere la propria esistenza, le scelte che hanno determinato il proprio futuro, i ricordi dell’infanzia, le frasi che, come la tortura della goccia cinese, ci perseguitano da quando siamo adolescenti e alle quali non riusciamo a trovare una collocazione semantica, attraverso l’uso che noi stessi facciamo del linguaggio? L’autore si pone le domande alle quali non sappiamo se riesce a trovare risposte che lo soddisfino davvero. Per le quali non è importante, a ben vedere, trovare ragioni e linearità – Perché è così misteriosa la lettera A? Quale è stata la mia prima parola? Per quale ragione non ho studiato il cinese? Il mio alfabeto di bilingue ha ventuno lettere ma ne ha anche ventisei: come mi ha segnato questa diplopia?
Leggendo questo libro ci si ritrova sulle montagne russe, dalle parti di Borges o Cortázar, o, per citare un italiano contemporaneo, di Gian Marco Griffi, autore dello splendido Ferrovie del Messico che, come Giartosio, dimostra la capacità profonda di giocare con il linguaggio, dominarlo, esploralo in tutte le sue forme.
“Lingua e linguaggio, una coppietta battagliera! Mi servivano entrambi, ma preferivo il secondo. Quando un editor americano per suggerirmi di formulare bene una data argomentazione mi ha detto: here you could provide some language showing that… ho capito che il linguaggio era un taglio di carne o un metro di stoffa, una cosa materiale. E che la lingua, a raccontarla, diventava linguaggio: così come una persona a raccontarla diventa per forza personaggio.”
Quella fisicità della lingua che ci fa riconoscere le paure, nominare le cose che più temiamo, ci fa amare e provare piacere quando pronunciamo alcune parole; delinea linguisticamente i confini del godimento, ci nutre e ci pone in relazione con gli altri.
Attraverso il nostro lessico famigliare ci formiamo come individui e poniamo l’impalcatura che sorregge la nostra struttura di animali sociali. Giartosio ripercorre la sua biografia fatta di espressioni in inglese (sua lingua identitaria insieme all’italiano) e formule imparate a memoria, nomi degli animali (anche i più impronunciabili) e interrogativi terminologici, i ricordi di famiglia e gli anni della formazione scolastica, dove tutto può cambiare a mezzo di un docente che disvela l’incanto.
Chi voleva lo seguiva, gli altri potevano fare capannello in fondo alla classe. Tanto lui continuava a dettare imperterrito, ritmando le frasi le frasi con la mano anchilosata e gialla di tabacco, e alla fine non negava la sufficienza a nessuno. Ma per chi lo ascoltava, formando un piccolo cerchio di teste attorno alla cattedra, la mano- artiglio affondava nel pozzo di un termine usato da Tacito o di un verso delle Baccanti, a estrarne veri e propri tesori: etimologie, raffronti col mito, glosse di antichi filosofi, riti arcaici. Li disponeva uno di fianco all’altro come i tarocchi bisunti di una cartomante.
Autobiogrammatica è una riflessione intima e corale, un saggio sul linguaggio e un romanzo di formazione, che nella sua seconda parte intitolata Abbecedario racconta il rapporto dell’autore con il proprio io, quando si è ancora molto giovani per scegliersi che profilo seguire, da quale poeta farsi ispirare.
Ero insofferente di quell’aria di chiuso che affligge l’adolescenza, e come ogni Narciso non mi sopportavo più. Viaggi e alfabeti erano due facce della stessa moneta, e il gruzzolo erano le lingue. Le avevo in tasca e in pancia per eredità famigliare, ne ero avido e ghiotto, mi consideravo un cosmopoliglotta, insomma ero ricco in molti modi e non me ne pentivo affatto: mia madre aveva fatto un buon lavoro.
Giartosio ci fa perdere tra i ricordi dell’io narrante e i suoi abbecedari analizzando in controluce lo strumento comunicativo che ci definisce a qualsiasi latitudine e in qualsiasi tempo, e lo fa con una curiosità accademica che non è mai leziosa o pedante.
Facendoci capire come senza una consapevolezza espressiva si rimanga, in fondo, solo alla periferia delle cose.
Angela Vecchione
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