I ventitré giorni della città di Alba è una raccolta di dodici racconti che, dopo un lungo e travagliato esercizio di scrittura, viene pubblicata da Beppe Fenoglio nel 1952. I racconti derivano dall’esperienza della Resistenza partigiana vissuta in prima persona dallo scrittore quando, nel gennaio del quarantaquattro, si unì ai gruppi che presidiavano le Langhe. Prima uomo d’azione, poi uomo di penna.

Fenoglio si inserisce nel panorama della narrazione della Resistenza con estremo realismo, distaccandosi tanto dall’uomo che non prende posto nella realtà bellica de La casa in collina di Pavese, quanto dall’aurea epica che alleggia intorno agli uomini de L’Agnese va a morire di Viganò. I partigiani di Fenoglio sono uomini: monarchici, comunisti, socialisti, studenti e sognatori, ma anche ladri, imbroglioni e assassini. Nei gruppi confluiscono individui diversi per estrazione sociale e fede politica, costituendo corpi complessi e differenti, accomunati però dall’opposizione al regime fascista.

Il sentimento della Resistenza diventa azione di uomini giovani, ancora ingenui, disorganizzati, che non riescono a concretizzare la loro volontà in una reazione organizzata e coordinata. Sono alla deriva. Fenoglio è lucidamente consapevole dello stato precario dei giovani partigiani e descrive con disincanto gli avvenimenti, lascia trasparire i sentimenti di paura e le aspettative che spesso non si traducono in realtà, né durante né dopo la guerra. Ettore va al lavoro presenta la storia di un giovane partigiano che, a guerra conclusa, non riesce a inserirsi in una realtà lavorativa e sociale che possa rispecchiare le sue aspettative: «Io avrò un destino diverso dal vostro. Voi fate con naturalezza dei sacrifici che per me sono enormi, insopportabili, e io so fare a sangue freddo delle cose che a solo pensarle a voi farebbero drizzare i capelli in testa. Impossibile che io sia dei vostri».

L’azione di Fenoglio partigiano si riflette nello stile di Fenoglio scrittore: non c’è spazio per il superfluo; anche là dove i tormenti interiori dei personaggi si fanno scrittura, l’espressione formale rimane estremamente radicata e fedele alle necessità concrete dei protagonisti: un motivo per cui resistere, vivere. «Eh, in questo stato la vita dovrebbe scaderti dal cuore, dovrebbe farti venire voglia di darle un calcio in culo e… Ma la voglia di vivere invece non ti va via».

Un altro carattere identificativo dello stile dello scrittore albese è l’umorismo. Attraverso la percezione degli aspetti più curiosi e incongruenti dei fatti, Fenoglio coinvolge il lettore che si riscopre in empatia non soltanto con i giovani protagonisti, ma anche con gli antagonisti, tutti accomunati da un sentimento generale di repulsione nei confronti della violenza che, in quel contesto, risulta a tutti infruttuosa.

«I fascisti non vollero dire che non avevano voglia di riprendersi Alba con la forza, i partigiani non volevano dire che non si sentivano di difenderla a lungo, e da queste reticenze nacque la battaglia di Alba.
I capi fascisti infangandosi ripartirono con il loro barcone dicendo – Arrivederci sul campo – i partigiani risposero – certamente – e stettero a guardare se quelli per caso non facessero naufragio. Non lo fecero».

A Fenoglio si deve la possibilità di percepire tutti gli uomini, alleati e fascisti, come vittime di un sistema bellico che, di fronte all’odore della morte, non conosce ideologie. Nel racconto Un altro muro, il giovane partigiano Max, catturato dalla Repubblica, domanda al compagno di cella: «Tu te la senti di morire per l’idea? Io no. E poi che idea? Se ti cerchi dentro, tu te la trovi l’idea? Io no. E nemmeno tu».

Prima l’idea, poi l’azione, la guerra, il sangue, la paura e la morte. Fenoglio e, come lui, i narratori della resistenza colgono una questione viscerale ed essenziale, che rimane aperta: di fronte alla morte dove si trova il confine tra giusto e sbagliato, tra buono e cattivo, tra alleato e fascista, badogliano e garibaldino, tra uomini e no? Di fronte alla morte chi ancora riesce a perseverare nella convinzione?

«Nei partigiani non ci torno. Tanto non avrò più ragione di fare il partigiano perché, se mi lascia andare, io la repubblica non la odierò più. Me ne dimenticherò. Penserò soltanto che a un certo punto della guerra m’è capitata una cosa tanto tremenda che non è possibile che siano stati degli uomini a farmela. Mi ricorderò fin che campo della cosa, ma mi dimenticherò subito degli uomini».

I sopravvissuti di Pavese chiedono ragione dei morti, gli uomini di Vittorini si domandano che cosa li distingua dai fascisti e Fenoglio, unendosi alla voce corale di inchiesta, denuncia l’aspetto più terrificante di quel clima di violenza: un susseguirsi di azioni inumane compiute da uomini ordinari.

Elena Biasi

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