Les enfants, c’étaient des gens comme ça, qui comprenaient qu’on les abandonne. Sans comprendre, les enfants, ils comprenaient, sans comprendre l’abandon, ils le comprenaient”.

La pluie d’été, Marguerite Duras

Nei romanzi di Donatella Di Pietrantonio accade sempre qualcosa di speciale. È successo in Mia madre è un fiume, ne L’Arminuta. E succede ancora nel suo ultimo romanzo Borgo sud. Le parole della scrittrice si imbevono del paesaggio abruzzese che digrada dalla montagna, il fondovalle, verso il mare di Pescara. E delle emozioni. Senza sottrarsi però, senza nascondersi, senza sussurrarle. Piuttosto le parole sono distillatti delle azioni, tabernacoli che custodiscono immagini molto nitide. Il racconto e le azioni si condensano in frasi e parole che sudano e respirano. L’originalità della scrittura di Donatella Di Pietrantonio non è solo nella prosa scarna e asciutta. Anche se questa misura traduce meravigliosamente la brevità della nostra storia, che è sempre solo appena nostra, c’è qualcos’altro. Se il sasso rotola, rotola anche la parola, e attraverso il racconto la montagna si sgretola. Le parole fanno irrompere i suoni e i colori. La luce sta giù, sui campi, sui prati. Le stelle stanno sulle finestre. E dalle finestre si ritraggono. La rugiada non bagna l’erba ma l’alba tutta. Il calore sta sul muro e il freddo inchioda il corpo. Il colore “dopo la pioggia” è un’altra tonalità di grigio. La luna è sulla faccia dolorosa. Sotto i passi la neve si rompe e le parole crepitano. La lontananza non c’è bisogno di raccontarla, basta dire che morde. Le emozioni soffiano feroci sulle parole per sradicarle. Altre volte fluttuano. Le parole sono pori che trattengono gli odori. Penetrano nei sogni.  Rovistano, liberano la rabbia che sta dentro ma poi sono pronte a reprimerla, ad addolcirla. Nelle parole si impigliano lacrime e abbracci. Le parole sorridono ai ricordi o si ritraggono perché l’emozione è troppo forte. Sono passi che non si compiono. Le parole sono pezzi di te e mani che ti tengono unita. E poi arriva questa frase perfetta: “Mia madre è un fiume”…

E attorno alle parole questo romanzo si costruisce attraverso dei flashback sapientemente dosati. La narratrice di Borgo sud, che è la stessa del romanzo precedente, l’arminuta, riceve una telefonata che altera tutto. È successo qualcosa di grave ma non sappiamo cosa. Soprattutto non sappiamo a chi. Lascia gli studenti, Grenoble, dove insegna, un vicino con cui condivide piante e gatto. E irrompono i ricordi assieme al dolore che sta sempre sul punto di colare ma poi è trattenuto. E anche i ricordi sono trattenuti e rilasciati solo quando le emozioni lo consentono. Appare Adriana, sua sorella con un bambino in braccio. E poi, tassello a tassello, si ricompone la storia di Adriana: storia di disamore familiare e di un’unione caparbia con un pescatore bello e dannato. Compare Piero, il marito della narratrice. E le sue premure cedono piano piano passo ad un’altra verità. Poi compare la madre, contadina del borgo, isolata nella sua casa e nella sua emotività infertile. E piano piano la scena iniziale, quella in cui una grondaia cede sotto il peso di una pioggia violenta e improvvisa e ferisce lo zigomo della protagonista in una giornata che doveva essere di festa, libera il suo significato e la sua forza. E l’incipit si riscrive alla fine della storia.

Il romanzo si muove attorno a tre donne: due sorelle e la loro madre. Ci sono anche tre mariti e un figlio. Ma a guardare bene la storia è un vortice lento attorno a qualcos’altro che si chiama segno o premonizione (e ovviamente superstizione e maledizione). Segni, erano già sparsi ne L’Arminuta. È un segno la scena iniziale, anche se non lo sappiamo. Poi i segni ritornano e si sommano sempre senza che ce ne accorgiamo. Fino a quando esplodono nella bocca della madre che scaglia la sua terribile maledizione. La matrice di questa percezione antica della vita è la madre: quella che ha solo partorito; quella che non c’è stata; quella che per sfamare i suoi figli ha ceduto l’arminuta ad una coppia di parenti che non ne poteva avere. La madre muta e che forse proprio per questo, come riconosce la narratrice, le occupa tutte.

La madre delle due protagoniste di Borgo sud è così. Quest’immagine desolata che la narratrice ha della propria madre aderisce sicuramente al personaggio che Donatella Di Pietrantonio ci vuole consegnare ne L’Arminuta ed ora in Borgo Sud: una donna gretta, superstiziosa, anaffettiva. Ma allo stesso tempo è deformata dalla figlia narratrice. Le madri sono deformate e sfuggano nella vita e nella narrazione. Le ragioni che portano alla distorsione, alla collera, alle parole dure, sono tante: assenza, abbandono, un doppio abbandono come quello sofferto dall’arminuta, deprivazione, menzogna, simbiosi eccessiva…

Nei suoi ricordi di infanzia e adolescenza, raccolti in Con passi giapponesi, la poetessa Patrizia Cavalli accusa la madre di averle fatto scoprire brutalmente la dimensione del tempo e della rovina. È successo quando dopo aver subito una isterectomia, si è lasciata andare, non si è più curata, ha messo una pietra sopra la sua femminilità in una specie di autoflagellazione. Come se nella percezione della figlia, non ci fosse posto per la donna e le sue ragioni, né per la sofferenza psicologica che una operazione del genere trascina con sé. Non c’è comprensione per la madre, perché nell’amore tirannico della figlia, lei avrebbe comunque sbagliato. E nemmeno nell’atto della scrittura e della rievocazione, Patrizia Cavalli è capace di capirla davvero, di accettare le sue debolezze e riservatezze. Non riesce a non essere ironica e rancorosa. Solo alla fine si pente di non aver preservato quella parte della madre che le piaceva.

Donatella Di Pietrantonio confessa, in Mia madre è un fiume, di non aver perdonato niente a sua madre. Anche sua madre “è sfuggita nella malattia”, nel suo caso la demenza senile. E la nostalgia per quei capelli infinitamente lunghi e ondeggianti come il fiume, come la chioma di un albero, sono il ricordo implorante della giovinezza svanita. La stessa nostalgia di Patrizia Cavalli per la giovinezza, per quel tesoro smarrito, per quell’ombra che si ritira.

In Mia madre è un fiume, Donatella Di Pietrantonio riesce a stare vicino a sua madre solo attraverso le parole. In un moto contrario alla demenza che mangia i ricordi, la scrittrice si aggrappa ai ricordi e racconta alla madre la sua e la loro storia. E ad ogni buco della memoria oppone una parola. Attraverso il racconto delle possibili ragioni di quell’amore materno troppo contenuto, del perché è stata una mezza madre, cerca di salvarla. Non sopporta il contatto fisico. Eppure le sta vicino anche col corpo, quando la accudisce. Veglia i respiri, i silenzi, i lamenti. Rassetta la casa. Corre trafelata le scale con la paura di averla già persa. “Stai tranquilla, mamma”. Accetta di stare lì e ricominciare infinite volte quel racconto che scorre appunto come un ruscello. E nell’osservare quello che il tempo ha fatto al corpo della madre c’è un’infinita tenerezza. Nella rinuncia, nell’incapacità di essere crudele con lei, anche se una parte di lei vorrebbe vendicarsi. Ma di cosa? Di quale colpa? Di non averla desiderata e amata abbastanza? Di essere stata troppo assorbita dalla dura vita contadina?

Le madri sono sempre e comunque “colpevoli”, perché troppo invadenti e troppo lontane. Con loro si fa comunque la guerra perché ti cercano quando tu non vuoi essere scovata e ti mettono da parte quando tu non vuoi altro che essere amata. L’affetto della scrittrice sale ma non riesce a liberarsi.  Non solo perché da piccola in qualche modo è stato trascurato. C’è qualcos’altro che ci fa comunque soffrire. Forse proprio il legame di amore e di tempo, che nostra madre ci dà. A volte è insostenibile. È una prigione da cui scappiamo perché è terribile misurare il tempo. Ma è anche un dono, perché è l’unico spazio in cui possiamo provare a trovare noi stessi. Per la scrittrice di Mia madre è un fiume, è l’origine della corrente narrativa.

La colpa della madre di Borgo sud è sicuramente quella di avere abbandonato la narratrice nel precedente romanzo, L’Arminuta. Ed ora, in questo seguito, per aver amato soprattutto Vincenzo, il primogenito morto. Il fratello che con Adriana aveva accolto l’arminuta più di quanto non avesse saputo fare la madre. E di essere in qualche modo morta con lui. Le figlie le ha date, le sono sfuggite, e lei ha ceduto sempre, arresa a una specie di destino cattivo. La narratrice l’ha messa ora in una specie di limbo, dove non riesce a giudicarla davvero, dove cerca di essere comunque una figlia abbastanza buona. Dove le emozioni si arrestano sott’acqua. Adriana invece le ha giurato guerra.

La madre delle due sorelle conserva qualcosa della madre di Mia madre è un fiume. Una donna di un’altra epoca, della cultura contadina del sud Italia. Quelle donne il cui ciclo vitale era segnato dal lavoro domestico e dal riposo dai lavori pesanti dopo i parti, dalla semina e dal raccolto. Quelle donne che sono state giovani e sane per una stagione troppo breve. Quelle donne che da giovani affrontavano qualsiasi fatica con allegria e vigore prima che la fatica le segnasse e le curvasse. Donne spesso soggette all’arbitrio di mariti padroni e padri molesti. Donne che avevano vergogna del proprio corpo, che lo mostravano solo nell’atto di mettere al mondo, lo coprivano assieme alle sue più intime malattie, e affrontavano la morte fino all’ultimo respiro con un coraggio stolido e meraviglioso. A differenza di quella madre, però, questa è ancora più isolata, sola nella sua miseria, ignoranza e grettezza. Ancora più chiusa rispetto a come l’abbiamo lasciata ne L’Arminuta: reticente fino alla fine, fino alla morte.

Ma è soprattutto la narratrice a conservare qualcosa di quella di Mia madre è un fiume: lo stesso senso di sentirsi invasa da una madre colpevole e l’autocontrollo, la rinuncia a ferire. Che è una paura di vivere, di vivere le proprie emozioni fino in fondo. Tutto pur di non vedere, di non annusare le tracce. Adriana azzanna, colpisce, si arrangia, scappa, affronta e subisce la vita. E l’attenzione e la tensione si spostano dalla madre alla sorella. E qui il dolore provocato dalla madre, che resta ancora più inespresso e inespugnabile, come un nocciolo, viene risarcito e superato attraverso il ricongiungimento con la sorella. La narratrice non chiede più alla madre di rispondere al suo dolore. L’unica preghiera è per Adriana e per suo figlio. Eppure, anche se Adriana e l’arminuta sono pezzi rotti e irregolari che combaciano e si compenetrano, due figure che dormono testa e piedi, resta però tra quei due incavi uno spazio infinitamente piccolo, un minimo vuoto, una scaglia che rende quel mosaico imperfetto. Quella scaglia è comunque la madre. La sua doppiezza, un “calore passivo”, un amore maldestro, che impedisce di odiare del tutto, di provare ribrezzo. Quella che depriva i suoi figli perché non può fare altrimenti. È il suo amaro destino, perché l’amore è un alfabeto che non ha imparato, ed è capace di schizzare fuori solo incontrollato. E proviene da quello stesso luogo ruvido da dove proviene la mano che si abbatte per picchiare. Questa donna misera sa amarli i suoi figli solo stando zitta, piangendo nel silenzio, nella testa bassa che non incrocia la disperazione negli occhi della figlia, in quel “vieni che ti faccio vedere come si fa”, nell’ultima volontà di far togliere la fattura ad Adriana. La stessa testa bassa della madre adottiva ne L’Arminuta, quella che apparentemente si è rifatta una vita con un nuovo compagno e un nuovo bambino, una vita in cui non c’è posto per l’arminuta. Su quella testa china pesa lo sguardo di un uomo, e di tutta una cultura retrograda, benestante o umile che sia, che controlla i suoi movimenti, la obbliga a restare seduta a tavola mentre lei vorrebbe volare dal bambino che sta piangendo disperatamente nell’altra stanza. Ma resta impotente.

Il borgo copre la violenza, anche questa. È una creatura tentacolare dai vari occhi, e dalla bocca chiusa. Nel borgo ci sono spose bambine che aspettano uomini cresciuti troppo in fretta e costretti a prendere il mare. C’è la fatica che ti fa cadere i denti. C’è la follia. Ma c’è anche la vita, quella che Adriana insegue ingenuamente e spericolatamente. È un borgo squallido, come il cortile di Lila e di Elena, nell’Amica geniale, come i vicoli e i miserabili balconi e gli uomini deformati sotto gli occhiali di Eugenia nel Mare non bagna Napoli. Eppure c’è una parte della narratrice e della scrittrice che custodisce uno sguardo benevolo per quello che c’è di buono, per quello che si salva comunque di questo triste microcosmo. Nell’Amica geniale, in mezzo a tutta quella violenza c’è l’amicizia. Qui c’è Isolina, che nonostante, la sua ignoranza, fa da madre ad Adriana. C’è qualcosa a cui la narratrice non sa rinunciare, con cui ha imparato ad essere appena un po’ più spietata. Una specie di appartenenza scavata nella mancanza. Prima di stringere di nuovo gli occhi, raccogliere dentro Adriana e Vincenzo, e scappare.

Silvia Acierno

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