Quando l’inclassificabile saggio intitolato Eros e Priapo venne pubblicato in volume per la prima volta, nel 1967, Carlo Emilio Gadda si avviava a diventare un autore postumo anzitempo. Tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, Gadda chiude i conti con due opere centrali della sua produzione letteraria; opere che lo avevano tenuto sotto scacco per buona parte dei decenni precedenti. Nel 1957, infatti, esce Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, la cui stesura travagliata aveva coperto l’arco di circa un quindicennio. Nel 1963, invece, esce in volume La cognizione del dolore, già pubblicato incompleto su rivista verso la fine degli anni Trenta. L’opera – grazie al sostegno determinante di Italo Calvino – vince il Prix International de Littérature, e proietta l’autore al centro della letteratura italiana del Novecento. Mentre Pasolini e gli autori della Neoavanguardia lo assumono a modello letterario, Gadda rifiuta quella fama tardiva, rifugiandosi sempre di più in sé stesso e chiudendosi in un silenzio che lo avrebbe accompagnato fino alla morte, avvenuta nel 1973.

In realtà, una prima redazione di Eros e Priapo risale già agli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale, tra il 1941 e il 1946. Il testo si presenta come un’opera ibrida, sui generis, che intercetta sottogeneri differenti, dal saggio alla satira, dal pamphlet al trattato psico-filosofico. In altre parole, un pastiche letterario che attraversa temi e materiali linguistici diversi, secondo un registro che abbraccia allo stesso tempo vette di lirismo poetico e affondi in un impasto linguistico grottesco, aggressivo, esasperante ed esilarante.

Argomento dello scritto è un bilancio storico e biografico del Ventennio fascista, concepito come un’analisi politica, sociale e di costume sottesa al Pasticciaccio (la prima stesura delle due opere è contemporanea), la cui ambientazione è situata proprio nel periodo in cui si era consolidato il favore di Mussolini in Italia, verso la fine degli anni Venti: «li associati cui per più di un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onta la Italia, e precipitarla finalmente a quella ruina e in quell’abisso ove Dio medesimo ha paura guatare, pervennero a dipingere come attività politica la distruzione e la cancellazione della vita, la obliterazione totale dei segni della vita» (p. 221).

Oltre a questa riflessione di carattere più ampio, al centro di Eros e Priapo c’è anche la necessità di comprendere e fare i conti con la sua personale e iniziale simpatia per il fascismo. Abbaglio che aveva portato Gadda ad iscriversi al Partito Fascista nel 1921 e a sostenere attivamente e per lungo tempo le politiche tronfie e patriottiche del regime, salvo poi discostarsene pochi anni prima dello scoppio della guerra: «ebbene: me ne duole per que’ gigli, ma io “devo dire certe cose”. Il mi’ rospo, tre giorni avanti di tirar le cuoia, devo pur principiare a buttarlo fuora: il rospaccio che m’ha oppilato lo stomaco trent’anni: quanto una vita! Sarà un parto difficile, vecchio, e da questa bocca istirata a le creanze, e da poi ammutolata al bavaglio» (p. 236).

Da questo disamoramento e dalla contemporanea sottomissione formale di Gadda al regime (incapace, o forse soltanto timoroso, di opporsi platealmente a Mussolini, Gadda aveva vissuto gli ultimi anni di vita del fascismo in un clima di silenziosa e privata sopportazione) prende piede una prosa comica e violenta, che sembra trascinarsi via le contraddizioni e le aporie tanto della pratica quanto della retorica fascista. Violenza e comicità che sono sostenuti da una ferocia linguistica straordinaria, un flusso frasale che sembra incantarci nel suono delle parole, terrorizzarci nell’icastico abominio di certe immagini evocate, e toglierci il respiro nel crescere di un riso sempre più grasso e radicale.

A sostegno di questa violenza verbale sottostà la necessità di comprendere la natura e il significato storico del fascismo italiano. Partendo da una lettura freudiana dei fenomeni sociali (debitrice soprattutto dei saggi di Totem e tabù), Gadda analizza il rapporto erotico creatosi tra la figura-priapica del leader politico Mussolini e gli istinti delle masse assoggettate all’influenza sessuale del dittatore. In questo modo, Gadda ci mette in guardia dai pericoli di una politica fondata sugli umori e i sentimenti primari dell’animo umano, incapace di concepire una visione analitica e dialettica della realtà: «l’io collettivo è guidato ad autodeterminarsi e ad esprimer sé molto più da gli istinti o libidini vitali, (che sono le fasi acquisite e le arcaiche e di già compendiate del divenire), cioè in definitiva da Eros, che non da ragione o da ragionata conoscenza» (p. 238). Per rispondere a una politica di pancia, Gadda ne apre le viscere e gli intestini, per metterne in evidenza storture e deviazioni. Allo stesso tempo, emerge in forma parodiata la vacuità della retorica fascista: il culto della forza e della purezza della razza, e la dimensione iper-fallica della vita politica (che si traduce, per contraccolpo, nello smascheramento della sua impotenza).

A fare da contrappunto a questa ricerca di senso, come dicevamo, troviamo soprattutto un linguaggio esuberante, a tratti delirante, che mima gli eccessi della parlata fascista. Una scrittura che trova le sue origini nella tradizione dell’espressionismo letterario europeo, dal Dante dell’Inferno alle evoluzioni stilistiche di Rabelais, dai labirinti linguistici di Sterne alla satura latina. Un linguaggio radicale, dove l’argomentazione concettuale si snoda (o s’infrange) in più punti nella mera acrobazia fonetica, nella libera associazione, nel privilegio del significante sul significato: «Non è dunque stupore le femine l’abbino così avuto nel fegato, in del fìdik, come dicono a Milano. Lui era genio tutelare della Italia – (qual viceversa ruinò, e la redusse a ceneri ed inusitato schifìo) – lui ne aveva insegnato essere vuomini; […] lui cavalcatore di cavalli e di femine in gloria: lui sì sì, lui sederone a cavallo, lui bellone, lui mascellone, lui fezzone, lui buccone, stivalone, provolone, maschio maschione cervellone generalone di greca tripla. Questo sognavano, questo talora ti dicevano le fraudate ammiratrici. E la moltitudine delle dame gli tarantellò e gli trillò d’attorno, pazze o, altre, callidamente ridenti: kù-cè, kù-cè, kù-cè, kù-cè» (pp. 266-267).

Un testo che conferma ancora una volta la statura letteraria di Gadda, capace di situarsi ai vertici dell’espressionismo novecentesco, al pari di altri grandi alchimisti della parola letteraria, da Joyce a Kafka, da Pessoa a Céline.

[Edizione di riferimento: Carlo Emilio Gadda, «Saggi. Giornali. Favole. II», Garzanti Editore, 1992].

Andrea Borio

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