Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.
Alessandra Minervini, scrittrice, editor e writing coach. Il suo primo romanzo si intitola Overlove, LiberAria 2016. Nel 2021 pubblica Una storia tutta per sé. Raccontare se stessi per essere (più) felici con la casa editrice Les Flâneurs Edizioni. Il suo sito è alessandraminervini.info. Qui gli articoli pubblicati su exlibris20.
Annetta racconta la sua vita vissuta all’ombra della madre, Sofia Vivier. Bella, inquieta, elegante, Sofia si vergogna del corpo della figlia perché è scandalosamente minuto. Una petite che non cresce, che resta alta come una bambina. Chiusa nel sacrario della sua casa, Annetta fugge la rozzezza del mondo di fuori, rispetto al quale si sente inadeguata. A sua insaputa, però, il declino lavora in segreto. È l’arrivo di Clara Bigi, una domestica crudele, capace di imporle regole rigide e insensate, a introdurre il primo elemento di discontinuità nella vita familiare. Il padre, Antonio Baldini, ricco commerciante di tessuti, cede a quella donna il controllo della sua vita domestica. Clara Bigi diventa cosí il guardiano di Annetta, arrivando a sorvegliarne anche le letture. La morte improvvisa del padre è per Annetta l’approdo brusco all’età adulta. Dimentica di sé, decide di rivolgere le sue cure soltanto alla madre, fino ad accudirne la bellezza sfiorita. Allenata dal suo stesso corpo alla rinuncia, coltiva con ostinazione il suo istinto alla diminuzione.
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Lezione n. 49
La senti questa voce?
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«L’infelicità è un luogo fisico, una stanza buia nella quale scegliamo di stare. Tanto che, quando accendiamo un lume, subito lo schermiamo, perché nessuno possa spiare all’interno.»
Abbiamo spesso parlato di quanto la scelta della voce, e quindi del punto di osservazione e del sentimento da cui viene attraversato, determini non solo la forma della storia ma proprio il suo contenuto. Lo abbiamo fatto a proposito di voci interiori e di dialoghi, ci siamo soffermati su quanto il ricordo e la memoria influenzino il tono di un personaggio e abbiamo a lungo letto e analizzato esordi che si dispiegavano attraverso l’esplosione di un sentimento ben delineato.
Con Una minima infelicità, l’esordio di Carmen Verde, mettiamo insieme tutti i pezzi precedenti e ne aggiungiamo uno: il ritmo. Se c’è ritmo, c’è stile scriveva Virginia Woolf. Se c’è stile, c’è voce. Il romanzo di Verde ha sia ritmo che stile, ed è tutto guidato dalla voce. È una voce calda quando non dice, spietata quando fiata. Dà ritmo alla storia e alla pagina; comanda e guida i pieni e i vuoti interiori dei personaggi, trasportando con sé quelli dei lettori.
«Non ho mai creduto che mia madre mi spettasse di diritto.»
La protagonista voce narrante e punto di vista del romanzo si chiama Annetta. Annetta è una petite, una bambina fisicamente minuta, non cresce ed è destinata a vivere sotto la media degli altri e a pensare però sempre al di sopra di essi. La voce di Annetta è una voce fioca e spezzata, violenta per necessità. È un temporale che scoppia senza preavviso, per il cielo è necessario chi sta sotto invece deve prendere le misure e scegliere di ripararsi alla bene e meglio oppure farsi inzuppare dall’acqua, senza farsi prendere dalla paura. La voce di Annetta è in prima persona, netta e definitoria come lo scrosciare dei goccioloni durante un acquazzone. Detta la forma della storia e perfino della pagina. Spesso ci si ritrova dentro immagini minuscole, strette addosso alla pagina che resta quasi vuoto come un piede scoperto da una coperta troppo corta per starci dentro intera.
«Noi piccoli dobbiamo sempre integrare, col pensiero, ciò che di concreto manca al nostro corpo. Una parte di noi è pura astrazione. Siamo spettri per metà.»
Ma il pensiero che controlla la sua vita non è il corpo minuto e inguardabile, ma sua madre. “Per anni mia madre visse di frodo in casa sua”, dice all’inizio la bambina decifrando in un lampo minuscolo e feroce, come il suo corpo, l’esistenza infelice e inutile di sua madre. Sofia Vivier è bloccata dentro una sorta di meta-bovarismo che accompagna la narrazione della sua vita da parte della figlia, che pur essendo la narratrice in prima persona, si infila nelle retrovie lasciando la scena alla madre e rivelando in questo tutta la sua perfidia figliesca. Sua madre è incapace, infedele, infelice, ignara di come si stia al mondo, avida e spendacciona, lontana anni luce dall’idea materna che si è fatta (non) crescendo sua figlia Annetta.
«Ci sono cose in noi che potrebbero essere, e tuttavia non sono, se non in rari momenti.»
Tutta la vita della famiglia Baldini è condizionata dagli umori materni. Suo marito lo è tantissimo; lo è anche Clara, la tutrice perfida che a un certo punto assumono per tenere lontana, tra i vari pericoli, Annetta dalla poesia e ne è condizionata Adelina, la nonna della bambina e madre di sua madre. Una donna che preferiscono rinchiudere in clinica invece di ascoltare cosa ha da dire. La voce delle donne intorno ad Annetta è muta oppure è una performance. Non è mai una preghiera o un lamento. Non è amore, non è gioia. Ogni responsabilità narrativa è nella voce di Annetta.
«Beati i giorni in cui mi era ancora concesso di essere piccola.»
Nel romanzo, si fa direttamente riferimento alle fotografie dii famiglia, che scorrono brevi tra le pagine, a caso, come se qualcuno le stesse ripescando senza un reale interessa da una usurata scatola di latta. Immagini che vengono viene al mondo, per la prima volta, dentro la pagina; raccoglie gli strali dei personaggi che rinfrangono negli occhi di chi ascolta la loro voce. La ferocia della voce dà ritmo alla pagina come fa un dettaglio, in apparenza insignificante, dentro una bella fotografia. Chi scrive compie una scelta simile a quella operata dal fotografo, che decide dove puntare l’obiettivo, isolando una porzione di reale attorno al quale porre la cornice dell’inquadratura.
«Nelle fotografie i vivi e i morti hanno tutti sempre la stessa età.»
Quella decisione iniziale (ancor prima di tutte le intuizioni o riflessioni su come scattare la fotografia) è soggettiva e arbitraria, e in quanto tale definisce lo sguardo che diventa unico. Quella cornice dell’inquadratura è la storia di una mancata felicità in una mancata famiglia. La storia di Annetta.
«In questa, ho l’aria triste.
Non è indispensabile essere felici.»
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