Nel dramma teatrale Casa di bambola, l’autore Henrik Ibsen entra nel merito delle realtà nelle quali le aspettative della società finiscono per ingabbiare e limitare la personalità e la volontà degli individui, in particolare delle donne.
La giovane moglie Nora Helmer è protagonista di un percorso evolutivo d’introspezione in ragione del quale matura la consapevolezza di come abbia trascorso gli otto anni di matrimonio, come del resto praticamente la sua vita, fingendo di essere la persona che il marito Torvald, suo padre e la società si aspettavano lei fosse. All’inizio, Nora crede che tutto ciò che lei desidera sia essere felice, il che nella sua visione corrisponde ad “avere una casa intima e carina, come piace a Torvald”. Peraltro, inizialmente Nora ritiene che la libertà possa discendere esclusivamente da una stabilità economica tale da consentire la conduzione di una vita “senza pensieri! Senza preoccupazioni!”. Eppure, il suo sacrificio – l’aver ottenuto illegalmente un prestito per poter sostenere le spese per le cure mediche di cui il marito abbisognava, per poi custodire il segreto sulla faccenda – le impedisce di fatto di raggiungere questa libertà, di essere e sentirsi libera. Quando Nora si renderà conto di come le sue azioni, altruistiche e disinteressate, siano divenute la causa del suo dolore, inizia a chiedersi se la sua vita sia realmente in grado di renderla felice.
Nella scena di apertura si assiste all’entrata di Nora, tornata allegramente a casa dopo lo shopping natalizio. Sin da subito, i nomignoli con cui Torvald si rivolge a sua moglie (“lodoletta, scoiattolino, passerotto sventato, testolina vuota, piccola sciupona”) sono indicativi di una relazione che sembra vivere dello spiccato paternalismo di Helmer e dell’irrefrenabile infantilismo di Nora. L’entusiasmo per la promozione, l’avanzamento di carriera conseguito dal marito, è tale che Nora ne rende immediatamente partecipe la signora Linde, sua amica d’infanzia giunta in visita. Ed è proprio nel suo confidarsi, che Nora rivela all’amica di come abbia salvato la vita di Torvald, ottenendo il prestito di denaro necessario per le cure. Dunque, Nora conosce il senso di responsabilità e il valore del sacrificio, ma non intende sabotare la relazione coniugale privando il marito della visione virile che egli ha di sé stesso. “Torvald, con il suo orgoglio maschile: come sarebbe penoso e umiliante per lui pensare che mi deve qualcosa. Sconvolgerebbe completamente il nostro rapporto; il nostro focolare bello, felice non sarebbe più lo stesso”. La trama si infittisce nel momento in cui giunge sulla scena il signor Krogstad, un impiegato della banca di Torvald. È lui ad aver concesso il prestito a Nora e, consapevole di come lei abbia falsificato la firma del padre per ottenerlo, la ricatta per assicurarsi la sua posizione in banca. Torvald, difatti, ha intenzione di licenziarlo.
E così avverrà: di rimando, Krogstad scrive una lettera a Torvald ove svela tutta la verità sul gesto compiuto dalla moglie. Nora, convinta che il marito la ami sinceramente, crede che egli sia disposto ad assumere su sé stesso la responsabilità della falsificazione, sacrificando la propria reputazione e dimostrando, così, la propria gratitudine rispetto al sacrificio compiuto dalla moglie per salvargli la vita. Ma nel momento in cui Torvald apprende la verità, egli giammai rifletterà sul sacrificare la propria reputazione, rimanendo ancorato alla sua idea. “Nessuno sacrifica il suo onore a quelli che ama”. Mentre Torvald si infuria con lei, le certezze di Nora inerenti al proprio matrimonio e alla propria vita di colpo si sgretolano e lei si rende conto di come il marito l’abbia sempre vista e trattata come una bambola da plasmare a proprio piacimento. “La nostra casa non è mai stato altro che una stanza da gioco. Qui sono stata la tua moglie-bambola come ero stata la figlia-bambola di mio padre”.
Per capire sé stessa e confrontarsi con il mondo sulla base delle proprie convinzioni e non di quelle che le sono sempre state imposte, Nora decide di lasciare Torvald e i suoi figli. “Debbo essere sola per rendermi conto di me stessa e delle cose che mi circondano”. “Credo di essere, prima di tutto, una creatura umana, come te… o meglio, voglio tentare di divenirlo. So che il mondo darà ragione a te, Torvald, e che anche nei libri sta scritto qualcosa di simile. Ma quel che dice il mondo e quel che è scritto nei libri non può più essermi di norma. Debbo riflettere col mio cervello, per rendermi chiaramente conto di tutte le cose”. Ecco, dunque, che quello intrapreso da Nora si configura letteralmente come una fuga dalle catene dell’ipocrisia e delle apparenze e una ricerca disperata e reale del proprio io.
Fabiana Di Fazio
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