Andiamo con ordine.
Il titolo di questo libro è affascinante, sia in italiano, Casa di foglie (compitatelo per bene e con gusto quando lo dite e sentite come suona) sia in inglese, House of leaves. Produce un effetto simile a dirlo, se ci pensate bene, o almeno a me produce un effetto simile nella testa. Un frusciare per la precisione, già un frusciare che viene da. Da?

Inoltre.

Questo libro è un romanzo, di non semplice lettura, che esce negli Stati Uniti nel 2000, dopo essere stato seguito dai lettori in alcune pubblicazioni di brani via internet. Infine viene pubblicato anche in Italia nel 2005 per la collana strade blu Mondadori (negli Usa è stato un best seller quindi… ci provano…) e dopo qualche mese di anonimato sparisce dalle librerie e successivamente persino dai cataloghi.
I non moltissimi lettori italiani ne parlano però, lo consigliano e, nonostante la sparizione commerciale, sempre più persone si mettono in caccia del libro facendolo diventare una specie di “Sacro Graal” per collezionisti e lettori, quel genere di lettori senza speranza di rivedere la luce di un pixel.

Anche a me, lettore di solito non distratto, lo consiglia un amico quasi 6 anni dopo l’uscita del libro stesso, e anch’io come molti non lo trovo da nessuna parte, fino a che un colpo di genio a scoppio ritardato, un colpo di genio molto molto fortunato, miracolosamente mi fa rinvenire il libro nella santa biblioteca della mia città, come sante sono tutte le biblioteche di tutte le città. Lasciamo perdere poi che non poter tenere un libro importante una volta letto mi procuri sempre tachicardie e  schiuma alla bocca se ci ripenso mentre sono in una qualsiasi libreria, ma insomma, riesco a leggere nel 2011 Casa di foglie.

Ora, finalmente, dopo quasi quindici anni dalla prima edizione italiana, per merito dell’editore 66thand2nd, questo strano ma emblematico romanzo dei nostri tempi torna a disposizione dei lettori in libreria, e meno male che tra il vario ciarpame ogni tanto si riesce a recuperare un libro che ovviamente è una specie di cult per la sua storia editoriale ma anche per delle indubbie qualità letterarie che difficilmente si vedono e si leggono spesso nei libri odierni, qui come negli Usa.

Ma di cosa diavolo parla questo libro?

Qui cominciano i problemi per voi. Parla di molte cose, in modi molto strani. Ma tranquillizzatevi, perché in fondo, essendo scritto da un autore americano, la scrittura conserva comunque quella capacità tutta loro di narrare una storia, storie che di per se sono già quasi sceneggiature e che a volte uniscono anche qualità di lingua e struttura.

Per di più in queste pagine, tanto per stare in tema filmico, il baricentro ruota attorno ad un manoscritto, il manoscritto di Zampanò, che è una specie di saggio in cui si commenta un film apparentemente dai fini documentaristici intitolato The Navidson Record.

C’è anche un tizio qualsiasi, Johnny Truant, che diventa uno dei narratori del libro, il quale trova nel suo nuovo appartamento, il vecchio appartamento di Zampanò, il manoscritto, e da quel momento in poi comincia per voi un’intersezione senza via di scampo nelle vite di persone, personaggi , un’intersezione di case cose mali amori tipi strani pellicola angoli metri e poveri e costretti e tremebondi lettori di Harmony e gialli tutti uguali che difficilmente però incapperanno mai in libri del genere.

E quindi? Chi è Navidson? Cosa è il documentario? È un documentario? O è un filmino di famiglia? E tutte le personalità che ne parlano l’hanno visto veramente?

Ecco. Qualcuno dice che sia un libro horror, forse anche Stephen King, ma a me non pare, o forse sì, ma importa qualche cosa?

Quello che importa. È. Che.

Fino a che leggerete questo libro lo maledirete e a volte lo criticherete pesantemente in fondo al vostro cuore, e anche platealmente a cena. Nonostante ciò andrete fino in fondo perché la storia parla di una casa, una casa che non è quello che sembra ma assomiglia molto agli incubi di alcuni racconti di Lovercraft o ad alcune “zampate” di It di Stephen King. Insomma, i debiti letterari vi saranno chiari, ma Casa di foglie sarà uno scritto più stralunato e complesso, più sfaccettato e rutilante rispetto a quelli citati. Una cosa diversa, non forse di quella qualità letteraria dal punto di vista della scrittura e del narrare ma dal fascino letterario perlomeno pari agli scrittori citati.

Sì, sarà anche un libro che vi immaginerete prendere la strada dei rami di un albero, che si perpetuano tendendo al cielo,  e delle foglie che vi si inalberano appresso aprendosi e cadendo giù aprendosi e cadendo giù. Giù.

Ma cosa sarà per voi Casa di foglie?

È questa in fondo la domanda e la sfida che pone il romanzo stesso.

Per me è stata un’esperienza, un viaggio dentro un esperimento di scrittura, un dialogo tra le arti e le potenzialità dell’immaginario, un sano thriller-horror (?) della tipica borghesia americana delle casette in periferia e dei giardinetti senza però essere un thriller o un horror. Un romanzo post moderno lo definirebbe qualcuno naturalmente, un romanzo intenso, costruito e ambizioso, dico io. Un libro che vale la pena leggere senza alcun dubbio.

E siccome l’ambizione in letteratura è una delle cose che preferisco consiglio anche a voi di non perdere l’occasione di comprare e leggere questo libro, che magari sparirà per la seconda volta in poco tempo (ne sarebbe capace), cosicché possiate farvi una vostra faticosa idea di che distanza c’è tra la buona letteratura e il niente ripetitivo e preconfezionato che ci vogliono far leggere di solito.

Altro merito dell’editore che riporta in libreria Casa di foglie è quello di aver rispettato e arricchito l’edizione originale dando respiro e senso alla complessa lettura estetica, grafica e contenutistica pensata dall’autore, cosa che nella prima edizione italiana era mancata, producendo più soffocamento del dovuto all’impavido lettore.

Se poi questo benemerito editore avrà la possibilità e il coraggio di tradurre anche i volumi di The familiar, ancora inediti in Italia, allora avremo di che parlare ancora delle narrazioni di Mark Z. Danielewski, per un motivo o per l’altro.

Lo ridico se non fosse stato chiaro: questo libro non mi è piaciuto. Fino a che.

Questo libro mi ha disturbato e non mi è piaciuto, fino a che non l’ho finito, fino a che non l’ho chiuso, fino a che non l’ho posato e ho cominciato a prenderne le distanze[1]. Allora lentamente, una volta percorso tutto il labirinto di Casa di foglie, dopo aver chiuso definitivamente la porta, mi è tornato in mente spesso e ho cominciato ad apprezzarne l’affabulazione, il mistero, l’incastro, le storie, tutte le storie e la storia che si inoltra in un budello, in un corridoio, uno di quei corridoi dove non vorreste mai trovarvi e che invece vi si insinuerà dentro, alla fine, alla fine di tutto.

E si, vi diranno anche che questo libro rientra nel genere di letteratura ergodica.

E cosa diavolo è la letteratura ergodica? No, non cercate su Google.

Leggete il libro.

Leggete Casa di foglie.

Io lo rileggerò.

Simone Battig


[1] Mi ha ricordato, anche se le motivazioni e “l’elisione”  prodotte  dalla scrittura sono completamente diverse, la sensazione che ebbi mentre leggevo Meno di zero di Ellis e cosa accadde quando terminai quel libro che per me fu una rivelazione e un colpo di fulmine.