Numero 15 | Dicembre 1998

«Quando soffiava il vento da nord si sentivano gli indiani, i cavalli, il fiato dei cavalli, gli zoccoli foderati di cuoio, il tintinnio delle lance e il perpetuo frusciare dei travois trascinati sulla sabbia come enormi serpenti, i ragazzi nudi che montavano cavalli bradi con la spavalderia dei cavallerizzi da circo spingendo altri cavalli bradi davanti a loro, i cani che trottavano accanto con la lingua fuori e gli schiavi seminudi che marciavano a piedi oppressi da pesanti fardelli e soprattutto la lenta litania dei canti che i cavalieri cantavano in viaggio; un popolo e il suo spirito che attraversano in coro sommesso il deserto pietroso verso un’oscurità perduta alla storia e a ogni ricordo come un graal contenente la somma delle loro vite violente ed effimere.»

Un amico, non uno qualunque, una sera, sollevando la testa dal libro che stava· leggendo (questo) ha detto: «Lui sì che ce l’ha la Verità, c’è poco da dire, ce l’ha e basta… ». E non sono in molti ad averla, e soprattutto non è che te la vengano a raccontare. Perché alcune cose proprio non si possono dire. Per fortuna qualcuno le sa scrivere.

Alcune storie, più di altre, sembrano reclamare violentemente il luogo cui appartengono. È nella loro natura, come è nella natura di certi luoghi insufflare nella mente di colui che li percorre strani pensieri di vita e di morte, di potenza e di spirito. Di pace, addirittura. Insomma se non abbiamo mai visto il sud degli Stati Uniti né il Messico possiamo provare a pensare a un posto dove siamo stati, che altrettanto prepotentemente (come accade in Cavalli selvaggi) ci è rimasto nelle viscere e magari attaccato alle scarpe.

Potrebbe essere la stretta fascia di terra che sta tra la pianura, a nord, e il mar ligure a sud: è una zona che qualcuno ha ribattezzato «terra di mezzo», perché è un ambiente spurio, non ben identificabile. Ha la composizione orografica del continente, ma è eroso dalle forti correnti che provengono dal mare. Si tratta di montagne, montagne imponenti sebbene non più alte di 1000/1200 metri. Spesso prive di vegetazione alta: pelate. Non di rado d’inverno sferzate da un vento freddo e implacabile. Camminarci sopra dà una sensazione di potenza e stranamente di identità: si sente di avere una giustificazione, e la percezione, nitida, di rientrare in un qualche disegno. Che poi, non crediate, non ha nulla a che vedere con pulsioni mistiche o ‘illuminazioni’ di alcun genere. È anzi un’esperienza fisiologica, di certo dovuta anche all’altitudine, che viene dal battito cardiaco accelerato a causa della marcia, e dalla sudorazione eccessiva che svapora sotto un sole spietato e lascia sulla pelle un sapore acerbo e metallico. Da una parte il mediterraneo e la bianca Corsica, dall’altra la pianura e l’arco delle Alpi, e tu in mezzo, nell’atto, crederesti possibile, di compiere grandi e irrinunciabili decisioni.

Di fronte a un paesaggio simile, e certo ancora più maestoso, come al cospetto della propria coscienza immensamente dilatata, si trova John Grady Cale che a un certo punto sente di non avere scelta, col suo cavallo e i suoi 17 anni decide di partire e di andare verso sud, verso il Messico…

Barbara Basso

 

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Cavalli selvaggi di Cormac McCarthyCormac McCarthy
Cavalli selvaggi
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Collana: Einaudi tascabili. Scrittori
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