Quando nasci nelle brume inglesi, all’ombra cupa di chiese nelle quali riecheggiano apocalittiche omelie; e appartieni a un’epoca, quella vittoriana, in cui essere donna significa imparare e interpretare clichés che costringono all’aborto di qualunque passione, alla mortificazione della corporeità e al dedicare la propria vita al servizio degli altri, siano essi genitori, sorelle minori, mariti imposti o tardivi, ragazzi più fortunati da educare; quando tuttavia ti viene consegnato il più bello dei giocattoli e inizi a narrare mondi e a inventare personaggi e a scrivere storie sin da bambina; allora l’immaginazione, per chi ha la fortuna di riconoscerla e svilupparla, pur praticandola in segreto, rappresenta una – talvolta l’unica – via di salvezza.
Per tutto l’Ottocento tra il fumo grigio delle ciminiere, i mattoni opachi e le campagne velate ha riecheggiato il continuo graffiare dei pennini: un suono che si è trasformato in voce distinta e luminosa, tanto chiara da poter essere ascoltata ancora oggi, composta da tutte quelle parole che potevano essere solo scritte per dare fiato a ciò che era negato, represso, costretto.
Quando ero al liceo, la mia professoressa storceva il naso se ci sentiva parlare tra i banchi dei romanzi vittoriani, colpevoli di essere zeppi di svenevolezze e ostentare finali melensi nei quali l’amore trionfava sulle tragedie umane; oggi sorrido quando vedo quelli che sono chiamati romance passare sotto i banchi dei miei alunni. Rileggendo da adulta, molto adulta, questi che sono i tre romanzi cosiddetti (discutibilmente) minori di Charlotte Brontë, mi sono resa conto di come all’epoca non ci avessi capito nulla. L’immagine che mi si è parata davanti agli occhi è quella di una scrittrice che ha lasciato con molta consapevolezza lo schema di una evoluzione, umana e letteraria, tracciato alla stregua di un sentiero di sassi nel bosco: una way out, una serie di indizi buoni pure in tempi e contesti diversi perché diretti a mostrare che tutto ciò che si vive nel corso di una esistenza non è mai inutile o sprecato, concorre sempre, anche quando nulla più va secondo i piani o le speranze, a trovare nuovi modi, non subito riconoscibili, per attribuire senso. Nonostante tutto.
Potremmo guardare alle tre opere come a tre momenti fondamentali dell’esistenza della scrittrice: quello dell’entusiasmo – contemporaneo al successo letterario di Jane Eyre e scaturito anche dall’accoglienza che ebbero i romanzi delle amate sorelle –, tramutato in una visione positiva e salvifica della letteratura, capace di riscrivere i finali per riequilibrare la “moderata quantità di felicità” che il calice della vita ci riserva; la fase storico sociale, attraversata rievocando i primi anni del secolo in cui si diffondeva la rivoluzione industriale; la parte finale della vita di Charlotte, devastata dai lutti, in cui si ripongono tutti i calici e le coppe e bisogna soprattutto badare a placare “l’angelo della tempesta” che sfida qualsiasi tentativo di soddisfazione.
Il professore è del 1847; scritto prima di Jane Eyre, prendendo spunto dalla personale esperienza di istitutrice in un collegio belga, fu però pubblicato postumo, nel 1857. La scrittrice parla in prima persona a nome di William Crimsworth, giovane inglese che si tira fuori da una situazione disagiata grazie all’aiuto di un benefattore (si incontra in tutti i suoi libri un deus ex machina sotto le fattezze di un personaggio che, al di là di un affetto maldestramente espresso o esplicitamente appassionato, si rivela fondamentale soprattutto economicamente per la svolta biografica dei protagonisti); giunto in Belgio come insegnante dovrà gestire gli umori e gli amori di Mademoiselle Reuter, preside del collegio nel quale sarà assunto; mentre cerca di farsi un’idea dell’animo umano conosce una giovane anglo-svizzera, Frances Evans, alla quale si legherà nonostante i rovesci della sorte e gli allontanamenti. L’intento iniziale della scrittrice, come lei stessa scrive nella prefazione, era perseguire un’idea onesta del raccontare ciò che può riservarci la vita, ma si era resa conto che gli editori preferivano una scrittura edulcorante, dunque non le costò alcuno sforzo, in quel momento sereno della sua esistenza, inventarsi il lieto fine che avrebbe voluto in quel di Bruxelles, qualche anno prima, quando Monsieur Héger, docente nello stesso collegio della Brontë, le aveva spezzato il cuore. Grazie alla voce di William si inizia a presentare una nuova idea di femminilità, appassionata e indipendente, diversa dalle tipologie maliziose e scaltre oppure insolenti e sciocche delle giovani “donne stimabili” dell’epoca. Lui cerca una “scintilla prometeica”, ammaliato dalla ragione e dall’intelligenza (tant’è che subisce anche il fascino della attempata direttrice): Frances è di umili origini, “parla troppo” e va quindi “frenata”, è accecata dall’amor proprio e addirittura nutre ambizioni letterarie. Dal canto suo, William decide di non mettere davanti il suo destino a quello dell’amata, è coraggioso, si ribella, resiste agli ostacoli che si frappongono tra lui e Francis per realizzare ciò che Charlotte ha solo sognato, la conciliazione tra amore, lavoro e passioni comuni.
La scrittrice usa William come una ventriloqua, donna che parla per un uomo fuori da quel contesto definito e delineato di comportamenti del suo tempo, il cui fine è riempire “una coppa di felicità misurata e composta”. Questo suo primo romanzo, che sarà rifiutato e poi eclissato dal successo di Jane Eyre, ha già una voce ferma ed è un presagio, anche se fugace, della rivoluzionarietà della sorella maggiore Brontë.
Due anni dopo Jane esce Shirley, definito (anche) un romanzo femminista ante litteram. La protagonista è una ricca ed emancipata ereditiera che vive nello Yorkshire attraversato dai disordini delle proteste luddiste, in pieno blocco continentale napoleonico, che si barcamena abilmente tra le posizioni intransigenti dei proprietari di fabbrica e degli operai e le diatribe tra whigs e tories. Si badi che Shirley nasce come un nome maschile: sarà utilizzato prettamente al femminile proprio grazie alla pubblicazione di questo libro. Pur essendo un personaggio speculare rispetto a Caroline, l’altra protagonista disegnata secondo tutti i crismi della gentildonna dell’epoca, il titolo del romanzo se lo accaparra lei e le sue vicende, narrate qui in terza persona, si intrecciano, oltre che con le tematiche già avviate del riscatto della figura femminile, con riflessioni politiche e sociali molto articolate, nonché su piccati richiami all’atavico odio Francia/Inghilterra e su polemici confronti tra anglicanesimo e religione cattolica (che in Villette costituiranno critiche palesi e sostenute da posizioni dottrinali ben delineate). Shirley è all’avanguardia, non si sottomette, si permette di rifiutare ricchi pretendenti, ingaggia debates dialettici nei quali vince per KO argomentativo con aristocratici, parenti, ecclesiastici e politici. Tutti uomini, ovviamente. Il finale la vede comunque convolare a nozze salvaguardando la propria indipendenza e la felicità dell’amica Caroline.
Villette l’ultimo dei suoi romanzi, pubblicato nel 1853, è forse il più difficile; infarcito di interi paragrafi in francese, ricco di riferimenti e citazioni colte e letterarie, dalla trama complessa e dalla scrittura fortemente introspettiva, dallo stile raffinato e più moderno nella strategia narrativa, è, a mio parere (ma anche di quello meno modesto di Virginia Woolf) il più bello. Charlotte ha perso i suoi affetti più cari e di lì a poco concluderà anche la propria vita, tra le braccia di un pastore sposato da poco nella cui placida esistenza si è adattata.
La trama ricalca quella del primo romanzo, poiché anche qui, voltando però la narrazione in terza persona e al femminile (lasciando talvolta alla stessa protagonista la prima voce), al personaggio principale viene offerta una possibilità di risarcimento rispetto alle difficoltà iniziali. Charlotte torna a raccontare la sua prima esperienza fuori dall’Inghilterra, quel passaggio in Belgio che le aveva aperto gli occhi, che le aveva fatto intravedere la prospettiva di emergere in un ambiente estraneo, che l’aveva vista innamorata per la prima volta. Lucy è una istitutrice che sopporta e combatte, attraversa devastanti relazioni amorose e incontra persone malevole ma stavolta senza una personalità pirotecnica: è una donna comune, tormentata e malinconica, si adatta, si costruisce un mondo nel quale vive da sola, l’abilità oratoria e la cultura sono le uniche armi con le quali si fa strada tra le ostilità.
Aleggia sulle sue vicende, dai sei ai venticinque anni, l’ombra opaca dell’angelo della tempesta, che rappresenta non solo un destino inesorabile, ma anche quella passione che anima ognuno di noi e che va tenuta a freno con la ragione, al limite soffocando le passioni, rendendosi freddi (il suo cognome è Snowe) e venendo a patti con la menzogna e l’ipocrisia. “Convenienza e decenza sono due divinità”: altre figure femminili sono Madame Beck, furba e insopportabile direttrice del pensionato femminile, che tuttavia lei ammira perché capace, solida e imperturbabile, e due giovani, Ginevra e Pauline, i due risvolti antitetici del prototipo di donna vittoriano (civetta insulsa e arrivista la prima, matura ma troppo pacata la seconda): tuttavia non sono indipendenti, a differenza di Madame Beck che si è costruita da sé e difende gelosamente una posizione autonoma, sociale ed economica.
Si assiste a una emancipazione, nella consapevolezza e nello status del personaggio, ma a costo del continuo occultamento di emozioni e sogni. Risulta ostico seguire la sua evoluzione (è anche una narratrice piuttosto inaffidabile) ma infine diventa chiaro che non si tratta più di riempire coppe di felicità ma di coltivarla quando possibile, con ostinata e stoica pazienza, attraversando esaurimenti nervosi e cercando di tenere il timone oltre le intemperanze e le fatalità. “La Ragione è vendicativa quanto un demonio; per me è sempre stata velenosa come una matrigna. Se le ho obbedito è stato soprattutto con l’obbedienza della paura, non dell’amore. Molto tempo fa sarei senza dubbio morta per i suoi maltrattamenti, la sua avarizia, il suo gelo, la sua tavola spoglia, il suo letto ghiaccio, i suoi colpi folli, incessanti, non fosse stato per quella potenza più gentile cui dedico la mia devozione segreta e fedele. Spesso la ragione mi ha cacciata di casa in piena notte, nel cuore dell’inverno, nella fredda neve, gettandomi per sostentarmi l’osso scarnito che i cani avevano abbandonato: giurando severamente che la sua dispensa non conteneva più nulla per me, duramente mi ha negato il diritto di esigere cose migliori…”.
Charlotte sferra a Lucy, così come si era abbattuto su di lei, un colpo di scure decisivo e straziante, riuscendo tuttavia a comporre aspettative che le offrono realizzazione professionale e una rassegnata serenità: ha compreso che non potendo riscrivere più i finali, occorre ambire a esiti radicalmente diversi, desiderarne di nuovi. E ciò risulta lampante leggendo le ultime pagine, non spoilerabili, pervase da una velata ambiguità.
L’angelo della tempesta è sempre pronto a far rivedere i piani e la sua ineluttabilità è parte integrante di qualsiasi conclusione: non si può evitare di fare i conti con l’assenza e la solitudine e, con un anticipo schiettamente moderno, Charlotte Brontë riconosce, come unico riscatto possibile e insieme scopo supremo di ogni esistenza umana, l’integra affermazione del sé in quanto singolo individuo.
“È stato fatto in modo che ogni lettore stabilisca da sé la propria catastrofe”
(lettera all’editore George Smith della Smith, Elder & Co.)
Emma Cannavale
Bibliografia:
Anne, Charlotte, Emily Brontë. Tutti i romanzi, versione Mammut (Newton Compton)
Vita di Charlotte Brontë di Elizabeth Gaskell (Neri Pozza)
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