Nadia Fusini, in questo saggio, denso per l’analisi e illuminante per le riflessioni, pubblicato per la prima volta nel 1974 per la vivace rivista Per la critica e ora in una nuova edizione minimum fax, torna a riproporre la domanda di cinquant’anni fa: chi ha ucciso veramente Anna Karenina e altre? E tra le altre ci sono: Emma Bovary, Effi Briest, Nora e Hedda di Ibsen e Jeanne di Maupassant, figure dei più celebri romanzi o drammi ottocenteschi. Con riflessioni incalzanti la studiosa rilegge gli atti di un processo immaginario ad autori, protagonisti e lettori di ieri e di oggi, fa deporre nuovamente le protagoniste, con le loro verità e appartenenze, e dichiara apertamente che nel loro caso si trattò di omicidi bianchi.

La lettura di queste pagine ci consente di ricavare una nuova prospettiva sulle vittime e sui carnefici. La donna è il perno di una aspra rivolta, di una contestazione dell’incontestabile, ossia di quell’accordo naturale e rassicurante che è l’istituzione del matrimonio. È lei la leva che Tolstoj, Flaubert, Ibsen e Fontane usano per attaccare e intaccare le regole della realtà normale, nel senso di normativa, definita dalla classe maschile al potere nella società ottocentesca. E nel sondarla, trivellandola, Fusini non cede a facili femminismi.

Anna e le altre sono personaggi che dicono: c’è dell’altro, anzi: c’è l’Altro e in questo modo smascherano con la propria esistenza l’irrealtà della realtà in cui vivono. La loro ‘lettera scarlatta’ scrive un nuovo vocabolario nel quale non si lasciano più definire dal matrimonio e, indipendentemente se commettano o meno l’adulterio, si avventurano all’esterno, in un luogo fuori scena, lontano dal perimetrato conosciuto e protetto del matrimonio. Sole. In questo percorso sono sorrette dalla loro nuova ipotesi di vita, tentano di dare figura e corpo a una nuova specie di donna e di destino, sopportano l’inevitabile fatica di un nuovo sguardo sul mondo, sono l’istanza eversiva nei romanzi ma fanno anche da cassa di risonanza a quello che accadeva nella realtà di tutti i giorni e che le lettrici sapevano bene.

Per la loro infrazione alla norma vengono punite ma entrano nel patrimonio immaginario femminile mettendo in movimento energie latenti e dimostrando che è possibile pensarsi altrimenti. E farebbero propria la frase di Dorothy Allison «preferirei camminare nuda piuttosto che indossare il mantello che il mondo ha creato per me» seppure in una diversa scala di consapevolezza della propria potenza esplosiva. Anna, a cui Fusini dedica ampie parti del proprio saggio, è senz’altro in cima, è la più presente alla nuova sé stessa, nel suo passaggio dal sonno alla veglia, ed è anche l’unica che comprende rapidamente che entrambe le vie, matrimonio e adulterio, non sono altro che due forme diverse di carcere.

E le altre? Nora di Casa di bambola rifiuta il ruolo di soprammobile e si libera dalle catene della guida e dell’autorità prima del padre e poi del marito. Hedda Gabler sempre di Ibsen, consapevole della propria superiorità sugli uomini, mariti o amanti che siano, può anche rovesciare lo schema tradizionale ma non sa che farsene di tale rivalsa perché non arriva allo scontro frontale uomo-donna. Effi Briest e Jeanne di Una vita di Maupassant delegano il loro essere all’altro, vivono come ospiti il mondo dominato dagli uomini come prigioniere inconsapevoli. Emma Bovary si trova invece a metà di questa immaginaria scala: è sì una prigioniera che comincia faticosamente a prendere coscienza della costrizione ma non esce dal sonno in modo netto come per Anna Karenina e rimane in un dormiveglia morbido e vizioso durante il quale verrà tradita sia dall’amore convenzionale sia da quello passionale.

In qualsiasi caso, dopo il risveglio esemplare, anche se necessariamente tragico, non sarà più consentito loro di addormentarsi rimanendo sempre, nota Fusini, l’outsider di Virginia Woolf, la pariah di Hannah Arendt e la deraciné di Simone Weil. Ed ecco un nuovo punto di vista: Anna vede dove altri chiudono gli occhi e, poiché vede, va al fondo e a fondo, Hedda svaluta il mondo nelle sue radici, Emma dichiara la sua irriducibile insofferenza, Effi e Jeane lo subiscono. Ma, lo ripetiamo, è la Karenina quella che alza veramente la voce.

E lo fa consapevolmente, sapendo di superare il limite, è una delle tante donne, che la letteratura cattura e a cui dà la parola, che sceglie ciò che desidera collocando sulla stessa linea desiderio e volontà invece di volere quello che non desidera o fare quello che non vuole. Osservando alcune scene del romanzo, Anna non è forse la cavalla che cavalca Vronskij nella celebre scena della corsa, con il suo sguardo tenero e ardito, pronta a saltare l’ostacolo delle convenzioni? Lui, com’è noto, sbaglia perché non asseconda il movimento dell’animale, si irrigidisce, si impone e lei paga con la schiena spezzata. Qui Tolstoj ci porta a pensare che anche nell’adulterio la donna è sempre subordinata, docile e condannata perché, in fondo, l’amante resta sempre un uomo dello schema patriarcale.

E ancora: Anna non è come i contadini di Levin? Pur convivendo nella stessa azienda i loro interessi sono contrapposti a quelli del padrone come lo sono tra marito e moglie. Non c’è una pacifica convivenza ma una tensione e una diffidenza continua perché donna e contadini stanno sempre sotto. Al contempo seguono una logica incomprensibile per il padrone tanto quanto è sconosciuto l’universo mentale femminile al marito e all’amante. Inoltre Anna si fa usare da Karenin per i suoi interessi di stabilità e perbenismo quanto da Vronskij per vanità, per quell’amore di sé di cui parla Stendhal, l’orgoglio del successo.

Anna è dunque tutto questo e sa di essere tutto questo: irrequieta, insidiosa, fastidiosa da controllare, una minaccia. Non è tuttavia una mina vagante ma una carica dirompente dentro le istituzioni che devono fare quadrato per neutralizzarla e si danno appuntamento alla stazione vicino a quelle rotaie del treno che porteranno verso un altro e un altrove.

Il suicidio di Anna è da volontà etica, è la risposta a un’impotenza storica con la quale si sottrae alla rappresentazione che si pretende da lei nella grande messa in scena del mondo. Anna sceglie il non essere perché non c’è più alternativa possibile tra le varie forme di essere, le catene sono sempre le stesse, anche se di materiale diverso. Lei non vuole diventare come l’uomo ma vuole esistere come donna in un mondo di uomini.

Queste donne, che si tolgono la vita per mano propria o muoiono per morte indotta o si lasciano morire, non sono martiri ma, con carature diverse, delle assassine perché tutte uccidono un certo tipo di donna e, insieme, un modello femminile di ordine e senso… Da quel momento nuove prospettive si aprono. Sperando di smetterla di morire. Di vita.

Claudio Musso

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