Una delle prime definizioni che vengono alla mente dopo aver iniziato a leggere Chiedi chi erano i Beatles è quella di “romanzo generazionale”: si ha per le mani un romanzo sull’essere adulti e fare finta di no, sull’essere adulti e aggrapparsi al proprio passato, sull’essere adulti e sulle piccole manie che ci permettono di gestire il caos che è la vita, sull’essere adulti e rendersi conto che non si è chi ci si sarebbe aspettati di essere.
Chiedi chi erano i Beatles strizza inevitabilmente l’occhio a una generazione specifica, quella dell’autore e del protagonista, i bambini degli anni ’60, i ragazzi degli anni ’70, i quarantenni degli anni 2000, che, si può immaginare, sentiranno molte cose risuonare in luoghi profondi della propria identità. C’è la controcultura degli anni settanta, c’è l’avvento dei cellulari, c’è il benessere dei primissimi anni 2000 – che la mia, di generazione, ricorda solo vagamente –, c’è Baggio. Eppure, questo romanzo riesce a parlare a tutte le generazioni, perché la nostalgia di quel che eravamo da giovani accomuna tutti, ma soprattutto perché racconta del diventare adulti, anzi del momento in cui ci si accorge di essere diventati adulti, processo sempre simile a sé stesso.
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“Hai un grande avvenire dietro le spalle.
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Paolo è un quarantenne di medio successo, ha un lavoro stabile e in teoria prestigioso – è medico psichiatra – ma che in fondo lo annoia, una relazione che dura da diversi anni ma che stenta a fare il “salto di qualità”, una lunga collezione di manie e idiosincrasie che scandiscono il ritmo della sua vita.
Paolo cerca spasmodicamente rassicurazioni e certezze: lo fa restando legato strettamente al passato di quando era studente, che, ai suoi occhi, rappresenta il Vero Paolo: tanto legato da mettere in scena, nei suoi spettacoli teatrali, con la giustificazione filosofico-metodologica dell’iperrealismo, episodi della giovinezza sua e dei suoi amici, replicati esattamente come sono accaduti. E ricerca rassicurazioni costruendo, per se stesso, un complesso sistema di schemi, da quello, in cinque fasi, per mangiare un Cornetto, a quello che gli permette di definire le diverse categorie di persone che distribuiscono opuscoli religiosi per strada.
Il ritorno di Spino, amico di gioventù vissuto per molti anni a zonzo per il Sudamerica, porta a riunirsi il vecchio gruppetto di amici del liceo. Sebbene alcuni di loro abbiano continuato a frequentarsi negli anni, il ritrovarsi tutti insieme scoperchia un vaso di Pandora.
Da quello di Paolo escono due grandi Mostri: la consapevolezza che crescendo diventiamo qualcosa di diverso da quello che da ragazzi pensavamo saremmo diventati, o avremmo voluto diventare, e la certezza che l’autoconsolatoria irregimentazione della nostra vita dentro schemi, classifiche ed elenchi rigidamente composti non è altro che un’illusione.
Amodio ricostruisce l’evoluzione del personaggio (dei personaggi) attraverso una vicenda non eccezionale ma significativa, in cui eventi e riflessioni si innestano e intrecciano contribuendo alla crescita e presa di coscienza di Paolo, che procede appena in ritardo rispetto alla prospettiva del lettore, appoggiandosi anche a elementi simbolici.
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“La sua idea di disco perfetto era una sciocchezza madornale, perché partiva da un macroscopico errore di fondo. Un disco perfetto non poteva essere composto esclusivamente da canzoni capolavoro.”
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E i Beatles, in tutto questo? I Beatles simboleggiano in qualche modo la curva sinusoidale delle esistenze dei personaggi: idoli delle masse per una generazione, quella che era giovane nel loro periodo di attività, vengono disprezzati dagli studenti comunisti degli anni settanta in quanto troppo commerciali, troppo poco impegnati, snobbati a favore dei cantautori politicizzati e della musica popolare, tanto che Spino, fan convinto, ha sempre finto di detestarli.
Quando le facciate cadono, e ci si rassegna al fatto che la vita ci cambia, ci ammorbidisce, ci piega allontanandoci degli ideali lapidei e lapidari della giovinezza, allora riemergono anche i Beatles, e si può finalmente ammettere che sì, quei quattro ragazzi di Liverpool che cantano agitando la testa a ritmo, in fondo, ci sono sempre piaciuti.
Vera Alemanno

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