«Non puoi farlo, Emily! È la protagonista. Ai lettori non piacerà».
La protagonista in questione è Catherine Earnshaw, uno dei due personaggi centrali del romanzo Cime tempestose, scritto da Emily Jane Brontë fra l’ottobre 1845 e giugno 1846 e pubblicato nel 1847. Nell’immaginario dialogo familiare che l’autrice del volume Tutto questo fuoco ricostruisce, la sorella di Emily, Charlotte, manifesta le proprie perplessità rispetto alla piega nefasta che Emily ha scelto per la sua storia. Le sorelle Brontë – alle due si aggiunge anche la minore, Anne – sono infatti cresciute con una spiccata educazione religiosa; sono figlie del pastore anglicano di origini irlandesi Patrick Brontë, uomo profondamente credente, sebbene per quei tempi di larghe vedute, avendo permesso a tutte e tre le figlie (e al figlio Branwell) l’accesso ai libri più disparati e una certa dose di libertà in generale. È plausibile, dunque, l’esclamazione di Charlotte, specie se si considera il destino che ebbe in sorte Cime tempestose al momento della sua uscita. Il libro non fu particolarmente apprezzato dalla critica, che anzi lo condannò tacciandolo di immoralità; la riabilitazione del romanzo cominciò a partire da dieci anni dopo la sua uscita, grazie a figure di spicco come Dante Gabriel Rossetti, Matthew Arnold, George Henry Lewes.

Come aveva potuto una ragazza così riservata come Emily scrivere una vicenda così straordinariamente elaborata e gotica e romantica? La sua vita fu estremamente breve e, in un’accezione fin troppo contemporanea, priva di grandi avvenimenti: si allontanò pochissimo dal suo ambiente, a suo agio soltanto nella sterminata e incolta brughiera silenziosa, dove amava passeggiare in compagnia del fidato Keeper, cane di famiglia. Quell’immaginario così familiare cullò e arricchì l’ispirazione artistica, a partire dal fantasioso regno di Gondal inventato tra le mura domestiche.

Definita non a caso da Giuseppe Tomasi di Lampedusa «l’ardente, la geniale, l’indimenticabile, l’immortale Emily», Emily Brontë ha consegnato ai posteri quello che sarebbe diventato un caposaldo della letteratura inglese, riversando quel suo carattere indomito nell’unica opera – se escludiamo le poesie – che l’autrice abbia firmato.

Siamo nel 1801 e Mr Lockwood, ricco signore da poco trasferitosi a nord per trovare un po’ di solitudine, arriva a Thrushcross Grange, di proprietà di Mr Heathcliff. È il nuovo affittuario della tenuta ed è intenzionato a conoscere il famigerato Heathcliff. Si reca allora a Wuthering Heights, fattoria immersa nella brughiera dello Yorkshire (così definita per «il tumulto atmosferico a cui sono esposte queste cime quando infuria la tempesta»), per farne la conoscenza. L’impatto che l’uomo gli susciterà è quantomeno inaspettato: i modi e l’aspetto non collidono in lui, come neppure quello dei due giovani che vivono sotto lo stesso tetto. Costretto suo malgrado – e visibilmente in contrasto con le volontà di Heathcliff – a trascorrere la notte a Wuthering Heights a causa di una tempesta, Lockwood aggiungerà alle prime stranezze altri e più inquietanti accadimenti, resi ancor più spaventosi dalle tenebre della notte e da quel vento sferzante al di fuori delle finestre. Incuriosito e un po’ affascinato da quel quadro, si affiderà quindi, rientrato a Thrushcross Grange, al racconto di Nelly Dean, governante della tenuta a suo dire più di tutti a conoscenza dei fatti e di tutta la storia di Heathcliff.

Sono sufficienti poche pagine di Cime tempestose per comprendere che ciò che si ha davanti è un romanzo atipico. È piuttosto insolito che il punto di vista sia affidato non ai protagonisti o a un narratore onnisciente, ma piuttosto a una governante, la cui ricostruzione si avvale sì di esperienze dirette (per quanto possano considerarsi tali le esperienze a cui ha assistito, essendone solo testimone) ma anche del racconto di terzi. In questa intricata e complessa struttura a matrioska, affinché Lockwood scopra assieme al lettore cosa è successo, occorre tornare indietro nel tempo, fino al 1771, quando il signor Earnshaw, proprietario di Wuthering Heights, di ritorno da uno dei suoi viaggi di lavoro, porta a casa un ragazzino dalla pelle olivastra, trovato per caso a Liverpool. È il piccolo Heathcliff, che si unirà ai due figli di Earnshaw, Catherine e Hindley. Earnshaw, è evidente, gli è già particolarmente affezionato, causando non poche antipatie soprattutto nei confronti del figlio maschio, che si sente spodestato del suo ruolo da questo trovatello, «usurpatore dell’affetto paterno e dei privilegi che toccavano a lui». A Catherine, invece, Heathcliff è sin da subito legato, di un’amicizia che trova il suo sfogo in scorribande nella brughiera e in quel gioco pericoloso e affascinante di tira e molla. Catherine è una ribelle, è volitiva, viziata e capricciosa. Vive al massimo, dentro sé stessa, il conflitto fra il mondo selvaggio di cui Heathcliff è rappresentante e il mondo di agi e ricchezze da cui è attratta. Le differenze di estrazione e ambizioni sociali sono tali da diventare una spada di Damocle sul loro rapporto, destinato a incrinarsi e a dividersi.

Se le circostanze, la volubilità e le scelte di convenienza non si fossero messe di mezzo, è probabile – ma non certo – che il destino di Catherine e Heathcliff avrebbe avuto un altro epilogo. Ma il concetto di responsabilità e di Homo faber fortunae suae non è mai stato vero come in questo caso. Ogni decisione presa ebbe i suoi riverberi senza sconti di pena, per nessuno dei due. Della disgraziata fine di cui entrambi, in tempi e modi diversi, furono vittime, si potrebbe mai incolpare qualcun altro se non loro?

Emily Brontë avrebbe potuto esaurire la sua vis artistica nella passione d’amore mai esplosa eppure fatale tra i due protagonisti. Nella sublimazione dell’amore solo attraverso la sofferenza, aveva già dato vita a immagini di iconica bellezza. Eppure, è interessante come l’autrice dia ulteriore respiro al romanzo servendosi di un albero familiare articolato. Se i genitori non hanno avuto il tempo materiale di espiare le proprie colpe, che siano allora i figli a raccogliere l’infausto destino. È così che Brontë si serve di nuovi volti – in parte sovrapponibili, forse, a quelli principali – per rincarare la dose di odio e vendetta. Se in vita Catherine aveva scelto la convenienza, sposandosi con Edgar Linton, allora è la figlia di Catherine (porterà lo stesso nome di sua madre), in un gioco di specchi, a dover cedere al piano che Heathcliff ha tenuto in caldo per anni. Nessuna delle persone macchiatisi di crudeltà nella sua infanzia e adolescenza sarà da lui risparmiata: l’antieroe per eccellenza è affamato di rivalsa sociale, è ormai ossessionato; le sue stesse fattezze, man mano che avanzano i propositi, mutano per assumere connotazioni sempre più animalesche e disumane. I suoi occhi sono «di basilisco», è considerato una «canaglia dell’inferno», un «mostro» dalla «natura diabolica». Fino al suo ultimo respiro, Heathcliff sarà letteralmente divorato dai suoi sentimenti, destinato in vita a non trovare mai pace.

Quanto detto finora consacra senza dubbio alcuno Cime tempestose come uno dei romanzi più intensi dell’Ottocento; non esclusivamente per il binomio amore/vendetta e per tutti i suoi riverberi nella vita altrui, ma anche per i numerosi altri temi in esso contenuti. Innanzitutto, il rapporto fra ceti sociali, attraverso quella disparità che non può mai essere cancellata e che relega i non abbienti al ruolo che il sistema ha per loro stabilito. La vicenda di Heathcliff è esemplare perché evidenzia gli scontri economico-sociali del periodo, a partire dal suo ingresso in scena nelle vesti di uno zingaro, o di un trovatello. Se l’infanzia a suon di maltrattamenti e umiliazioni plasma un’identità intaccata dalla bassezza altrui, all’uomo è però concessa una qualche forma di riscatto. Senza intenti moralistici, che mai saranno presenti nel libro, il riscatto qui perde la connotazione cristiana e diventa il fine cui giungere con tutti i mezzi possibili, non importa quanto crudeli e intollerabili essi siano.

Per Heathcliff non c’è – non può esserci – redenzione. Giustificheremmo il suo agire diabolico in nome di quello che ha subito nell’infanzia? Probabilmente no. Ed è in questa sua incarnazione del vero villain, in questa metafora del principio del male, che si rivela essere uno dei personaggi più complessi e sfaccettati della letteratura.

La stessa Emily per cui «la libertà era il soffio della vita», che visse la sua intera esistenza divisa tra l’ambiente familiare, la brughiera, la natura selvaggia, e l’ambiente immaginario delle storie scritte da bambina con sua sorella Anne, risuona in ognuna delle pagine di Cime tempestose. Girata l’ultima pagina e chiuso il libro, non sarà allora strano sentir riecheggiare, da fuori, il grido di una donna:

«Fammi entrare… fammi entrare!»

Giovanna Nappi

Bibliografia
Cime tempestose di Emily Brontë (Einaudi)
Tutto questo fuoco. La rivoluzione delle sorelle Brontë di Ángeles Caso (Marcos y Marcos)
Il mondo di Emily Brontë. Saggi, recensioni, traduzioni, poesie, drabbles, racconti di Francesca Santucci (Kimerik)
Vita di Charlotte Brontë di Elizabeth Gaskell (Neri Pozza)