Città sommersa è un atto d’amore verso l’uomo grazie all’assenza del quale la storia esiste: se questo padre fosse in vita la storia non esisterebbe. Nel suo libro Marta Barone cerca il ragazzo che suo padre è stato, un uomo dalla generosità ed empatia magnetiche ma che lei, nel breve arco di tempo in cui sono stati vicini, non ha mai davvero incontrato. Lo cerca attraverso gli atti di un processo, i racconti dei suoi compagni di lotta e di partito, lo cerca con amore e pazienza sconfinate nei frammenti dell’immagine di un documentario. Ne traccia la parabola di vita tra la Puglia, Roma e Torino in anni di ideali infranti, tra chi aveva scelto la lotta armata e la battaglia per i diritti al lavoro, alla casa, ad una vita degna accanto agli operai meridionali nella grande città industriale. Quello che oggi è un perimetro di muri ed un enorme vuoto urbano di due milioni di metri quadrati era la Fiat Mirafiori che negli anni di maggiore produzione ha accolto a Torino – e allo stesso tempo rifiutato – 50mila persone che conducevano esistenze in condizioni umane terrificanti.

L.B. con i suoi compagni si batte intorno ai fuochi improvvisati di strada della Cacce per il diritto alla casa, perché le vite di queste famiglie abbiano un riflesso di dignità. In questo anelito di giustizia sociale e nel racconto di una città borghese travolta dalle agitazioni e dalla fatica del vivere vedo un filo teso che arriva fino alla città di oggi. Come hanno potuto queste strade, questi marciapiedi, questo cielo spesso plumbeo tornare ad uno stato di inerzia e di apparente quiete borghese dopo anni come quelli, infiammati dai cortei, da attentati, da morti fortuite davanti ai bar. Come ha potuto questa città tornare così borghese, perbenista e conservatrice, occultare la memoria, dimenticarsi e quasi cancellare un pezzo di storia come fosse vergogna? Ho letto tanto su quegli anni, Enrico Deaglio come guida in Patria 1967-1977 sopra tutti gli altri – romanzi, saggi, monografie -, eppure con Città sommersa tra le mani ho pensato a cosa rimane all’eredità dei giovani come L. B. che si battevano per un mondo più giusto, per una società profondamente equa e migliore, alcuni dei quali scivolati rovinosamente sulla violenza.

E poi c’è il tema del riscatto sociale, per chi come noi viene dalla terra. L’idea di non avere biblioteche ereditate nelle proprie famiglie di origine che ti fa scegliere i libri, le storie e la conoscenza come strada maestra per un’emancipazione reale, da sé stesse prima di tutto.

Giovanna Solimando

Eppure c’era anche felicità in quell’insolito, estenuante modo di vivere. Non si smetteva mai di correre da una parte all’altra, non si smetteva mai di parlare, delle sorti del mondo o di qualche fesseria, ci si trovava in piola con i compagni, anche quelli di altre organizzazioni, ci si prendeva in giro a vicenda, si andava al cinema, si ascoltavano dischi, si cantava insieme (…), si provava una certa elettricità, di vicinanza, di calore continuo, un’esauribile curiosità per gli altri e poi l’ebbrezza dei cortei, dei comizi (…).

Lo slogan era molto semplice: pane, pace e lavoro.