La letteratura spesso ci consegna delle lezioni importanti: una di queste, racchiusa come una perla nel senso della scrittura, lo si ricava dalla lettura di Claudia Durastanti, autrice de La straniera, edito da La Nave di Teseo, un romanzo che nasce come un memoir ma che si discosta dal senso classico del genere.

La straniera è un romanzo che parte dalle radici ma che si muove continuamente da esse. Colpisce molto come la narrazione sposti il punto di vista sull’oggetto, su un dato di realtà, su un evento. Come il margine e le problematiche legate alla disabilità ad esempio: la disabilità dei tuoi genitori viene raccontata in modo completamente diverso rispetto a quello che siamo stati abituati a leggere. Puntando sul superamento, come una prospettiva nuova.

«Diciamo che il mio rapporto con la disabilità non è stato lineare, per esempio raccontando di mia madre mi sono soffermata su altre forme di marginalità che aveva e sulla sua ribellione caratteriale. Probabilmente fino a quando ho vissuto in Italia avevo letto la disabilità di mia madre in un certo modo, poi, quando mi sono trasferita in Inghilterra, anche perché c’è stato un cambiamento linguistico, l’ho interpretata diversamente. L’Italia è un paese fortemente cattolico in cui prevalgono l’empatia, l’assistenza, il tentativo di trovare “il buon disabile”, invece, in Inghilterra la figura del disabile è stata messo al centro di un dibattito come un’altra forma di identità, come quella di genere, o politica. Questo mi ha fatto vedere mia madre come se in un certo senso fosse una sconosciuta e ho cercato di intrecciare quello che era un’analisi teorica e critica, con un vissuto intimo. Un altro scatto per me è stato relativizzare la disabilità in relazione al tempo: riteniamo che mentre noi andiamo avanti il disabile resti sempre nella stessa dimensione, questo ci spinge a dimenticare che invece ciascuno di noi è fallibile. Siamo tutti bombe a orologeria, i miei genitori sono semplicemente esplosi prima e hanno dovuto vivere con le conseguenze di un’esplosione. Io contengo dentro di me le premesse di una differenza e ho scritto un libro sulla disabilità ma non dentro la disabilità, raccontando un attraversamento anche, di questa membrana che siamo noi tra il disabile e il mondo».

Uno dei focus maggiori de La straniera è il rapporto con i luoghi. Quelli in cui veniamo al mondo, quelli che abitiamo e quelli dove scegliamo di andare, di viaggiare.
Racconti che tua madre ad esempio è tornata a vivere in Lucania a 34 anni, scegliendo il legame embrionale che lei ha sempre avuto con il luogo in cui è nata perché più forte di qualsiasi altro rapporto. Tu sei diventata a tua volta americana, lucana, inglese.
Non radicandoti mai del tutto con il sistema british e mi hai ricordato Sylvia Plath quando racconta di una Londra non facile da abitare e Virginia Wolf, quando parla di quella città in modo creativo e nello stesso tempo angosciante. Claudia dove hai vissuto meglio te stessa?

«Quando sono andata a vivere a Londra una delle prime cose che ho fatto è stato cercare la casa di Sylvia Plath, i luoghi in cui viveva Virginia Wolf, una sorta di pellegrinaggio inquieto che poi non so se sia stata una profezia ma in qualche modo quello che mi è successo nell’arco del mio vissuto lì è che il mio tempo sentimentale, il mio tempo interiore, è diventato un tempo politico: questa inquietudine da personale è collettiva, diventa qualcosa che respiri nell’aria, nel parlato, nella vita di tutti i giorni: sono stata morbosamente attratta da questa dimensione in cui riverberano una serie di inquietudini e alienazioni personali e resto grata per l’impatto che ha avuto questa fase su di me, anche se poi, l’indipendenza ti sembra una conquista e la libertà poi, diventa solo solitudine ed espulsione. Io invece credo di essere una lucana-americana: ho coltivato la mia differenza rispetto a quel canone italo-americano in Basilicata dove e io e mia mamma abbiamo fatto una vita se vogliamo molto più punk e visionaria di altri posti. Ho poi coltivato stando fuori, un mio modo di essere italiana che ritrovo in un’espressione di Natalia Ginzburg: “L’Italia è paese anarchico e disordinato, però per le strade, si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue”. Ecco. Credo che questa componente di vivido sangue sia qualcosa che ho riconosciuto e mi ha fatto ri-confrontare con l’essere italo-americana, come uno dei miei scrittori preferiti Don De Lillo, fino ad una riconoscenza benevola con questo tipo di modello. Pertanto dico che io mi senta a casa in questa patria immaginaria, in cui mi converge la ragazza meridionale e la ragazza con l’esperienza della grande città».

Hai raccontato il territorio lucano e la Val d’Agri con delle tinte inedite, pur rispettando l’identità di quei luoghi. E qui torniamo allo sguardo con cui li hai vissuti e mischiati agli altri luoghi in cui hai vissuto: la Basilicata è una terra rinata recentemente, pensiamo all’escalation di Matera che è diventata il simbolo di riscatto di un territorio. Cosa hai trovato di utile alla tua narrazione nel mondo lucano e nella sua trasformazione?

«Quando parlo dell’amore scrivo che per innamorarsi serve un’estraneità, una differenza e questo è quello che ho fatto con la regione in cui sono cresciuta. Uno dei registi che amo, Malick, gira spesso i suoi lavori in questo tipo di paesaggi per cui non avevo alcuna attrazione, pur vedendo quel “set” dalla finestra, essendo cresciuta a quindici minuti dai Calanchi. Quando li ha visti, anni dopo, ho pensato che sono uno dei posti più belli del mondo: anche se io non romanticizzo mai i posti in cui sono cresciuta in quanto hanno poi una serie di problematiche e contengono diverse forme di resistenza. E volevo riscattare sicuramente riscattare un posto da un vocabolario “levista”, incline a soffermarsi sempre sul livido e su quello che non c’è».

Anni fuori, parlando inglese, sentendoti una expat o anche no.  Forse la Brexit ha fatto sentire tutti meno accolti e più immigrati nel senso più arcaico del tempo, ma mi ha impressionato che tu abbia raccontato con una sintesi perfetta che la lingua natìa si vendica, che l’italiano e il lucano stesso, vengano fuori in alcuni registri, quasi come delle forme vive.

«Sono cresciuta sulle traduzioni: quando mi fanno notare che nel mio modo di scrivere e di tradurre si sente la presenza della lingua inglese, penso sempre, che negli anni più importanti della vita emotiva e intellettuale – che sono quelli che vanno dalle scuole medie all’università – ho letto tantissima letteratura italiana in traduzione e poi solo da adulta li ho letti in originale: questa esperienza di aver letto dei classici americani e della controcultura mi ha certamente lasciato delle influenze. Così come credo che la lingua dell’infanzia, quelle dei primi scritti e delle fiabe emerga in alcuni frangenti. Da quando vivo all’estero il mio accento è diventato più romanesco, uso anche il dialetto lucano che non parlo bene, ma utilizzo nella sfera domestica a volte in registri comici, mentre la tensione e il litigio si esprimono in inglese, perché lo trovo e lo sento tagliente. Probabilmente credo che la mia prima persona è italiana e la mia terza persona è molto diretta e inglese».

Come è stato strutturato il libro? Avevi, immagino, in mente l’uso della prima persona, essendo un memoir. E ogni parte del testo ha dei titoli, come a voler accompagnare il lettore in delle macroparti della storia, dove poi, ci si spezzetta in microparti. E in altre parti ancora più piccole.

«La Straniera è frutto di diversi incidenti in realtà – ride, ndr – e di cambiamenti in corso. Il libro nasce non solo dalle mie vicende personali, essendo appunto un memoir, ma da diversi discorsi e appunti presi negli anni con molte persone. L’idea certo era quella di fare un libro che parlasse dei miei genitori e del loro percorso, raccontare. Ma la materia era magmatica e andava organizzata: anche perché usare la prima persona e scegliere di scrivere un memoir occorre un lavoro di selezione preciso che eluda il melodramma, la retorica. Alla fine si è data una nuova visione all’intero lavoro, suddividendolo per parti, che poi a loro volta si dividono in parti più piccole. Anche il colore della copertina è stato scelto in casa editrice: io l’ho immaginata blu di Prussia per tutto il tempo della stesura. Invece funziona meglio così».

Resta il fatto che ricordare e scrivere sono due azioni che sai fare con una abilità straordinaria: i ricordi e i traumi vengono messi come panni stesi sul filo della vita. Senza retorica. Senza dimenticarsi delle ferite, dei pianti, delle difficoltà o dei piani di vita diversi. La Straniera è un grosso esercizio sul superamento dei traumi, elaborare cicatrici.

«I memoir classici continuano col metodo di “divaricare i lembi della ferita” e scrivi nel flusso, nel fluido della narrazione che ne esce fuori. Io invece volevo proprio raccontare come cambia l trauma nel significato del tempo o cosa succede a noi quando le cicatrici che fanno parte della nostra identità, non riescono più a vedersi. Esistono ma non hanno più la stessa intensità.
Volevo alternare il registro tragico ad un’ironia pensosa, tendendo alla ricomposizione.
La Straniera parla anche di amore e di conflitto: ho sempre pensato che l’amore si sviluppasse nell’ambito del bisogno e della salvezza, oggi credo che non esista amore senza conflitto. Nel senso più nobile del termine. Ci innamoriamo di qualcuno quando ci è estraneo, quando il suo mondo è “in conflitto” col nostro: tutte le forze che mettiamo in campo per avvicinare questi due poli, ecco, quella è la storia d’amore».

Intervista a cura di Antonella De Biasi