La felicità esiste e mi ha schivato di proposito.

I racconti in Come una storia d’amore di Nadia Terranova sono scritti a punta di inchiostro, come se la china tracciasse uno schizzo in bianco e nero, radunando in pochi tratti il senso di tutta una vita.

L’esistenza, con il suo carico e la sua densità, il suo peso e la sua drammaticità, viene narrata con la stessa leggerezza del nastro aereo di una ginnasta che volteggia in punta di piedi. Tutto avviene quasi in silenzio, come in un film muto dove tutto scorre, girato da una vecchia cinepresa.

Il dolore e la solitudine si mescolano senza fare rumore.
I sorrisi sono dimenticati.
Le parole non si sentono, e a noi lettori tocca leggere il labiale, carpire il battito del cuore, frugare tra le pieghe dei chiaro-scuri, mettersi in ascolto.
Riconoscersi.

Vivere è faticoso, evocando Pavese, ed è faticoso farne i conti. Non occorre, gridarlo, però. Nessuno schiamazzo, nessuna isteria.

I personaggi si muovono scalzi, camminano nel presente e nel passato, e guardano indietro, perché guardare in avanti sembra impossible. C’è un pathos struggente che li accomuna, non si conoscono ma sembrano cercarsi in un afflato comune. Cercano la felicità, pur sapendo che non la troveranno mai.
E non per loro incapacità, piuttosto per una leopardiana inesistenza di essa. Essi ci provano, provano a uscire dal loro destino ineludibile, provano a crederci ancora, tuttavia senza fare grossi tentativi, quasi rassegnati, e stanchi.

È sempre una questione di alfabeto. Esistono strani blocchi intorno al linguaggio. Si può girare intorno a un non detto tutta la vita.

C’è in tutti una consapevolezza dolente che acuisce la caducità e la fragilità, la fatica e la profonda paura di vivere.
Lo scenario, Roma, è la città-non città, un’unica, grande periferia del mondo. Città eterna e città disperata. Città amata ed estraniante.
La città qualunque, abitata da donne e uomini qualunque, assente e rarefatta, abbagliante e accecante, ovvero implacabile metafora di speranza e disperazione.
Che getta le sue ombre sulla brechtiana parte del mondo, da sempre seduta sulla sponda del torto.

Anna Napodano

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