Ho cominciato a pensare seriamente al fatto di diventare un deejay dopo aver visto Talk Radio di Oliver Stone. Chiamatemi romantico, ma morivo dall’idea di scuotere la sonnacchiosa vita notturna (e come dovrebbe essere una vita notturna se non sonnacchiosa? ndr) anconetana, così come faceva sul grande schermo Eric Bogosian. Non che avessi la stessa parlantina del personaggio che interpretava, ma eravamo entrambi lungo crinuti e ricci, e questo fa una certa differenza, si sa.

Comunque sia, spinto dall’emozione provata al cinema mi sono presentato a Jimmy, il capo di una radio privata della mia zona, che in quei tempi, la fine degli anni ottanta, andava assai forte. «Vorrei fare il deejay» gli ho detto, ed era cosa fatta. In realtà mi ero abbastanza paraculato, visto che in quella radio ci aveva già lavorato mio padre, e quindi la mia presenza lì portava a galla un non so che di nostalgico e melanconico: esattamente in sintonia con la fine del decennio. Non vi ho ancora detto il nome della radio, perché non è proprio un nome di cui vantarsi, ma credo che sia arrivato il momento di vuotare il sacco. La radio a cui ho prestato la mia voce e la mie mani per quattro anni – quattro!!! – si chiamava Radio Marche Ancona. Se dico si chiamava è perché adesso non esiste più, inghiottita dai networks che hanno spazzato via tutte le piccole emittenti locali (questo va letto con un tono un po’ malinconico, come se foste Veltroni che sfoglia il proprio album di figurine Panini).

Sì, fedeli ascoltatori, io ho lavorato a Radio Marche Ancona, l’unica radio denominata Radio Marche Ancona, recitava lo slogan pubblicitario.

Forse è un trucco per far credere che la scelta del nome sia tutta una cosa ironica, mi sono detto quando l’ho sentito la prima volta (beata ingenuità).

L’unica radio denominata Radio Marche Ancona.

Il primo programma che ho condotto si chiamava… beh, un nome vero non ce l’aveva, era solo il programma di dediche e richieste che andava in onda dalle quattordici alle sedici tutti i giorni lavorativi. Dediche e richieste, forse era proprio questo il suo nome. Fatto sta che ho cominciato a fare il deejay dopo la bellezza di due ore di prove in studio. Cioè, io arrivo e Jimmy mi fa accomodare in uno studio in cui dovevo leggere le notizie del televideo davanti a un microfono, giusto per prenderci la mano. Poi dopo due ore Jimmy viene di là e mi dice: «Così può bastare» e mi porta davanti a un altro microfono e dice: «Siamo in onda». Così è cominciata la mia carriera . Facendo la spalla a uno che di nome si chiamava Luigi ma che pensava che Jimmy fosse molto più da star, per capirsi. Uno che già il secondo giorno di trasmissione ha pensato bene di lasciarmi in onda da solo perché aveva da fare. Così eccomi da solo col pubblico. Sì, perché facendo un programma di dediche e richieste io il pubblico lo potevo avvertire davvero. Niente storie di te che sei solo davanti a questo microfono, col fumo, la consolle e basta. A me la gente telefonava, e se non mettevo tutte le canzoni che richiedevano, anche quelle più brutte, mi ritelefonavano e mi fanculavano. Io facevo lo speaker, il deejay, il regista, il telefonista e tutto il resto. E questo perché il buon Jimmy doveva intrattenersi con la sua amante nei sotterranei della radio. Poi ci ho preso gusto (Jimmy pure, credo) e sono anche diventato bravo. Non dico che ero come Eric Bogosian, ma ci sapevo fare. Eravamo al secondo posto degli ascolti radiofonici regionali, con circa settemila ascoltatori a puntata. Uno sproposito, nelle Marche. La gente mi veniva a cercare alla radio, per conoscermi e io ho cominciato a farmi venire a prendere dagli amici, tanto per confondere un po’ le acque (avevo sempre in mente Talk Radio ndr). Ogni giorno avevo un po’ di fan che mi aspettavano all’uscita, ma eravamo sempre un gruppetto di sei o sette amici e nessuno sapeva chi di noi fosse il vero Michele del programma.

I miei programmi andavano così bene che ne ho proposto uno ideato da me. Si intitolava On the rocks. È vero, come titolo non era proprio il massimo della vita, ma la musica che mettevo su era davvero splendida. E lì non c’erano gli ascoltatori che telefonavano per richiedere Toto Cutugno e per protestare. Lì gli ascoltatori non c’erano proprio, credo. C’ero io da solo davanti a questo microfono, col fumo, la consolle e basta. Ma si era già negli anni novanta, e questa è tutta un’altra storia.

Michele Monina