Mi appassionano le lettere perché credo che sia un modo di esprimersi in bilico tra la spontaneità e la letteratura. Credo che questo sia vero soprattutto quando a scriverle sono i grandi artisti, quelle persone che hanno un mondo interiore creativo e, spesso, complicato. Leggere le lettere di un artista, o, meglio ancora, di uno scrittore, ci permette di entrare in quella parte del suo mondo che non è quella rivista e corretta delle sue opere, ma quella in cui esprime sé stesso con meno filtri e maggiore spontaneità.
Non conosco l’opera poetica di Sylvia Plath in profondità, ma attraverso le sue lettere ho incontrato una grande scrittrice che, seppur per un breve periodo, ha raccontato di sé e del suo tempo.
“Mammina carissima, mancano solo cinque minuti a mezzanotte,
e ho pensato di impiegarli per scrivere la mia prima lettera alla persona che mi è più cara.”
(27 settembre 1950).
Inizia così la prima lettera della corposa raccolta che la poetessa americana Sylvia Plath scrive alla madre, Aurelia Schober, a partire dal suo primo giorno al college, il 27 settembre 1950, e si interrompe soltanto con il suicidio della poetessa, l’11 febbraio 1963. Le lettere che Sylvia scrive alla madre sono circa settecento, meno di due terzi sono comprese nell’edizione inglese; poco meno di duecento in quella italiana, curata da Marta Fabiani ed edita da Guanda nel 1975. La pubblicazione delle lettere della poetessa nell’edizione inglese è stata curata dalla madre stessa. Tuttavia, in questo caso non possiamo parlare di corrispondenza, perché mancano le lettere della madre. Sylvia le cita nelle sue risposte, ma la madre ha deciso di non pubblicarle, e di non darci nemmeno alcuna indicazione a riguardo. Non abbiamo idea della loro frequenza e del loro tono. Io trovo sempre molto interessanti le corrispondenze in cui possiamo ricostruire il dialogo tra le due persone che si scrivono, perché amplificano le sensazioni e aiutano il lettore a spingersi in maggiore profondità nei rapporti descritti o sottintesi. Nel caso di Sylvia Plath le lettere, come pure i diari, hanno una funzione di avvaloramento delle sue opere, già fortemente autobiografiche. Offrono al lettore uno sguardo intimo e profondo della sua vita. Quasi tutte le lettere sono firmate Sivvy, il vezzeggiativo usato per lei in famiglia, che aiuta il lettore ad entrare nel clima di intimità e famigliarità che permea tutta la raccolta. Le lettere parlano di letteratura, di vita quotidiana, di sogni, di speranze, ma anche di disperazione e di difficoltà. Il corpus delle lettere segue tredici anni della sua vita, dalla giovinezza nel college americano, agli studi a Cambridge, al matrimonio con il poeta Ted Hughes, alla nascita dei due figli. Sempre presente lo spettro della depressione, che entra nella vita della poetessa già al college, e che la accompagnerà per tutta la vita, spingendola diverse volte a tentare il suicidio.
“Sono ancora in chiacchere con la dott. Booth [la psichiatra del college] una volta la settimana – discorsi amichevolissimi, in quanto sento davvero di essere, in fondo, una persona fondamentalmente molto felice, ben adattata e ottimista – di una felicità continuativa, costante, senza rimbalzi dalle stelle alle stalle, anche se di tanto in tanto tocco davvero le stelle.” (19 aprile 1954)
Questa sua negazione delle sue difficoltà mescolata a delle implicite richieste di aiuto saranno una costante di tutta la sua vita, e si ritrovano spesso nelle sue lettere. In quelle scritte nei primi anni ’50 emerge il racconto del suo esordio nella comunità accademica e artistica americana, profondamente colpita dal clima di sospetto e repressione del periodo del maccartismo. Troviamo descritti i rapporti con altri poeti a cui lei si ispira, tra cui Anne Saxton, che definisce la sua madre letteraria, e che rimarrà sempre presente nella sua vita come “amica/nemica”. In quelle scritte dalla seconda metà degli anni ’50 in poi emerge il racconto delle grandi sfide della sua vita: il trasferimento in Inghilterra; il matrimonio con Ted Hughes, le violenze domestiche, la crisi, la separazione; la nascita dei suoi due figli; la continua lotta alla depressione.
Sylvia riponeva grandi speranze nel matrimonio con Ted, un legame che lei desiderava sia d’amore, ma anche di poesia. Invece la realtà si rivelerà essere molto diversa, Ted sarà infedele e violento. All’inizio del periodo di separazione la poetessa sembra essere sollevata e inizia a pianificare una nuova vita per lei e i bambini. Ma col passare del tempo anche questa nuova vita la porta ad aumentare il suo senso di solitudine e di abbandono. Nelle lettere troviamo sempre riferimenti alla vita quotidiana, e spesso si scusa con la madre per il tono con cui le scrive:
“Cara Mamma, mi sento in dovere di scriverti una lettera più felice dell’ultima che hai ricevuto”
(24 settembre 1962).
Le lettere non sono soltanto il racconto del quotidiano, ma testimoniano la trasformazione delle sue esperienze personali in riflessioni universali, processo che ritroviamo anche nelle opere poetiche. Nella sua ultima lettera alla madre, datata 4 febbraio 1963, 7 giorni prima della morte, la poetessa parla dei suoi progetti di lavoro con la BBC per il maggio seguente, e di come i suoi figli abbiano bisogno di lei e lei non possa lasciarli soli, nemmeno per mandarli in vacanza negli Stati Uniti dalla nonna. Questo sembra avvalorare l’ipotesi che il suicidio possa essere stato un suo ennesimo tentativo di chiedere aiuto finito male. Le lettere alla madre non sono le sole scritte da Sylvia Plath. Conosciute, ma mai pubblicate, sono anche quelle alla sua psicanalista, scritte tra il 1960 e il 1963, che narrano delle aggressioni, degli abusi e delle minacce da parte del marito. Queste lettere sono state messe all’asta dall’antiquario statunitense Ken Lopez e vendute per 875 000 dollari; ora fanno parte di un archivio privato raccolto dalla studiosa statunitense Harriet Rosenstein e contengono anche una serie di documenti medici come le sue sedute psicanalitiche. Il contenuto è stato parzialmente reso pubblico in occasione del cinquantesimo anniversario della morte della poetessa.
Le lettere di Sylvia Plath alla madre sono un esempio brillante di come le lettere ci aiutino a fare luce sulle vicende della vita degli autori, e senza di esse procederemmo soltanto per ipotesi.
“Solo due righe per dirti che ho appena fatto il mio glorioso ingresso in un nuovo periodo creativo. Sono chiaramente le migliori poesie che ho scritto e mi dischiudono nuovi materiali e un nuovo modo di esprimermi. Ho scoperto la mia profonda fonte d’ispirazione, che è l’arte” (22 marzo 1958).
Federica Rustichelli (Libricolfrancobollo)
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